1948: l’anno delle fake news nella politica

Il 1948 è stato un anno essenziale per l’informazione e non solo: il momento storico in cui l’ordine mondiale riprese forma dopo la deformazione fisica della guerra e quella fluida della propaganda, allietata dalle apparenti sirene – in realtà autentici mostri, di destra e di sinistra – che predicavano anche sui mezzi di comunicazione (la radio su tutti), il nazionalismo assoggettatore di popoli, persone, culture, civiltà e idee; il contrario, tra l’altro, di quel “sovranismo” – o “somarismo” – cieco e grezzo, tanto auspicato anche ottant’anni fa. Con la nascita delle nuove nazioni che a grappoli conquistarono l’indipendenza dagli imperi multiformi a partire dal ‘48 in poi e la rinascita delle nazioni che si erano combattute ed erano spinte dall’esasperata spirale – recessiva, in fondo – dello sciovinismo, a riprendere forma è anche il mondo mediatico, asciugato almeno – all’inizio – dalle miopie belliche. E se in tempo di guerra strumenti come la radio e le lettere sono stati i vettori d’importanti messaggi (stimoli all’azione e complotti, ma anche conforto), la macro area entro la quale essi erano e sono circoscritti – il modo mediatico – di certo non è stato al riparo da manipolazioni in tempo di pace (o meglio: in tempo di non guerra mondiale). Manifesti, media sonori, flussi di parole, gocce d’informazione e, per arrivare a oggi, Internet: tutto condito dalla retorica più o meno aggressiva del dibattito politico, che dei media ha sempre avuto bisogno per veicolare se stesso. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’uso della “mediaticità” radiofonica stessa, dei manifesti e dei giornali avrebbe potuto rinascere (e così, in parte, è stato). A settant’anni esatti dall’anno che ha scosso la comunicazione, bisognerebbe fare un bilancio di cosa abbiamo in eredità da quel 1948, quando l’esplosione del suono e delle parole iniziava a fare effetto nelle orecchie e nelle bocche – ma specialmente nel cervello – dei sempre più milioni di fruitori, che silenti prestavano i sensi ai flussi comunicativi.

Nel 1948 George Orwell invertì le due cifre dell’anno in corso per creare il suo capolavoro sull’amore, la libertà di stampa, la politica, il controllo, la dittatura, il totalitarismo, la paura e l’identità: 1984 diventò il manuale di sopravvivenza dell’uomo moderno; una facile e pessimista Cassandra che – più che mai attuale – non solo avvertiva la cortina che aveva preso forma materiale dalle parole di Winston Churchill, ma denunciava anche il rischio di un’informazione distorta e falsa (e in tal senso violenta), al servizio dello Stato ingordo di controllo sui suoi sudditi. L’uomo occidentale post-bellico, dopo il grande e lungo conflitto mondiale, era – almeno in una prima fase – stanco e sospettoso del totalitarismo: non voleva ridursi ad un burocratico, pavido, banale e debole Winston Smith, protagonista del libro dello scrittore inglese e preda della sua stessa inutilità, nell’essere un semplice e grezzo ingranaggio del freddo regime del Grande Fratello, amico-nemico, aguzzino-salvatore di una società distopica costruita in cemento armato di repressione; spesso e volentieri il risultato di una o più bugie – o “fake news” – perpetrate troppo a lungo e diventate normalità. Il primo presupposto per creare un regime totalitario è senza dubbio quello del controllo dell’informazione, attraverso il quale gli elementi di anormalità e anomalia vengono fatti passare – sempre dal grigio e burocratico omino al Ministero (della Verità?) – come qualcosa di normale, abituale, ordinario, comune. Semplicemente, solito: conforme alla regola – le cui origini vengono velocemente dimenticate dal popolo – dettata dall’alto.

Nel 1948, in aprile, in Italia si tennero le fatidiche elezioni repubblicane del post-Fascismo, determinate da un’aspra campagna elettorale, a base di reciproca sfiducia tra i partiti, diffamazioni, notizie false, demonizzazioni dell’avversario. Queste, in parte giustificate dal fatto che l’Italia – stivale galleggiante nella culla della civiltà mediterranea – dovesse restare più verso l’Atlantico che il Caspio. Un paese strategico per quell’Europa nata da Konrad Adenauer, Robert Schuman e, per l’appunto, l’italo-austriaco trentino Alcide De Gasperi: la bugia – che poi non si distanziava molto dall’effettività delle cose – prevedeva molte forme nel dibattito politico ed era giustificata dal mantenimento del Belpaese nel gioco atlantico occidentale, nonostante molti al suo interno – soprattutto in determinate sacche del Nord – si riconoscevano pienamente nel Generalissimo dell’Unione Sovietica, Stalin o nel suo omologo – carissimo nemico – Maresciallo Josip Broz (che ha fatto tremare il Vecchio Continente con il nome di Tito); dittatori che mai hanno consentito un regime fondato anche sulla libera stampa. Il ‘48, preceduto dal ‘46 – anno in cui si scelse tra Monarchia e Repubblica – è stato un anno essenziale per l’Italia e per l’informazione italiana. Italia che, trent’anni prima – il 4 novembre – firmava il suo armistizio e poneva fine alla Prima Guerra Mondiale, dove la verità, per dirla alla Eschilio, era stata la prima vittima.

Il 2 novembre 1948 era il giorno di altre elezioni, ma questa volta statunitensi: sulla scheda elettorale, Harry Truman, democratico, già Vicepresidente di Franklin Delano Roosevelt e il repubblicano Thomas Dewey, quarantenne, già governatore dello Stato di New York. Il giorno dopo, il prestigioso Chicago Tribune uscì con il titolo “Dewey defeats Truman”: il più grande errore da parte dei sondaggisti, il più famoso abbaglio informativo di tutti i tempi; presente in tutti i manuali del buon giornalismo e della storia dell’informazione su carta, visto che – come noto – gli esisti elettorali si sono completamente ribaltati (consentendo ai democratici alla Casa Bianca un legittimo dominio ventennale, fino all’arrivo di Dwight Eisenhower). L’azzardo del quotidiano di Chicago è stato certamente rischioso: non ha pagato; e nella memoria collettiva è scolpito anche come una metafora delle peripezie politiche americane: come poteva un anonimo Senatore del Missori vincere addirittura un secondo mandato e gestire l’imminente guerra delle due Coree? Eppure, ce l’ha fatta: quasi nessun medium aveva scommesso sul Vice del fondatore del New Deal. Poco più di un mese dopo da quel novembre di settant’anni fa, Eleanor Roosevelt – moglie di FDR – veniva orgogliosamente fotografata di profilo con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, esposta come una candida vela bianca all’aria e tesa tra le braccia divaricate della ex First Lady. Di importanti e attuali riflessioni, sono gli enunciati dell’articolo 19 della DUDU, per la quale: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di […] diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere» (il che, certamente, non vuol dire aprire i tombini delle fake news e della mala-informazione).

Facendo un salto avanti di settant’anni, arriviamo ai giorni nostri, dove la parola “fake news” sembra essere il pass-par-tout di ogni discussione; un vocabolo tornato di moda con le elezioni presidenziali americane del 2016 (egregio, in tal senso, il lavoro di certi spin doctor, professionisti della comunicazione, con un piede nel penale e uno nel legale); una parola che sembra nuova – e non lo è – ma che è stata completamente inflazionata dall’uso e dall’abuso di coloro che la citano. È bene ricordare che oggi, come nel ‘48, fake news e potere politico vanno a braccetto, si mischiano: le notizie false e tendenziose sono l’arma migliore per fare fuoco sulla stampa. Questa, non esente comunque da critiche spendibili per via di certe campagne ideologiche, prevenute e faziose nei confronti di certi personaggi ai vertici dei certi stati. Oggi, a differenza del ‘48, la “viralità” della notizia (e quindi anche della fake news) è all’ordine del giorno: il principio dell’immediatezza, l’abicì dell’informazione odierna. Difficile quindi fermare il capillare flusso di falsità nell’era dei click. Una grande illusione: una grande bugia.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

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