Festival d’Avignone, Troppo di tutto
Stiamo continuando a riferirvi degli spettacoli proposti dalla scena IN del festival dedicato alle arti performative contemporanee che da 73 anni si tiene in Provenza. Vi raccontiamo della scena ufficiale, agognata da ogni teatrante, tralasciando – ma forse faremo un’eccezione nei prossimi giorni – le 2800 proposte della sezione OFF, quelle che gravitano come satelliti attorno alla selezione ufficiale. Funziona così: se non sei tanto fortunato da rientrare nella rosa IN dei selezionati, non ti resta che litigarti uno dei minuscoli teatrini avignonesi, mandando in avanscoperta un produttore (se già ce l’hai) o andandoci tu stesso; o condividere il minuscolo teatro (ad Avignone spuntano come funghi e sono anche molto efficienti) con una o più compagnie teatrali che da tutto il pianeta arrivano qui a luglio per tentare di rendere visibile il proprio talento a potenziali produttori nel corso delle tre settimane del Festival d’Avignone.
Missione: rendersi indimenticabili. Ciò che, ahinoi, non è del tutto riuscito ai pur bravi allievi dell’Ecole supérieure d’art dramatique de Paris, che ad Avignone hanno presentato Dévotion: dernière offrande aux Dieux morts. Dietro questa “classe” di post-adolescenti c’è l’incontenibile creatività di Clément Bondu, il quale si dichiara non solo l’autore ed il regista della pièce, ma anche un cineasta e un poeta. Ma è proprio questa abbondanza a generare imprecisione, caos, un clima esuberante di oggetti estetici cui si fatica ad attribuire senso e spazio. Si intendeva indagare la ritualità del teatro, interrogare l’atto stesso della rappresentazione. Attento all’eredità consegnataci dai greci, Bondu privilegia tre dimensioni: quella politica, quella intima e quella drammatica. E infine il rito, uno strumento potente attraverso cui chiedersi se sia credibile, oggi, immaginare che esistano (ancora) gli dèi o gli eroi.
Che fine hanno fatto le maschere e gli archetipi? C’è ancora posto per la catarsi in questa società abbruttita? In sala abbiamo sofferto l’abbondanza di parole messe in scena da un collettivo che avanzava indistinto, non sufficientemente identificato nelle singole entità (vive, morte, spirituali, simboliche…) che voleva descrivere. Ma, ci dice Bondu, a lui interessa il teatro come luogo, molto meno la disciplina che reclama. E quindi convoca i morti, affinché, attraverso l’esercizio della risurrezione, si possa credere ai vivi. Un’inversione di paradigma. Bell’idea, se non fosse che Bondu, per ingenuità o incontrollata bramosia, abbia riservato a tutti i personaggi lo stesso processo di “andata e ritorno”: l’effetto sorpresa ne ha sofferto parecchio.
Al di là di alcuni tratti stereotipati dei personaggi o alla genericità di alcune scelte (ma probabilmente è tutto legittimamente riconducibile alla povertà dei mezzi o alla scarsa esperienza della compagnia), da applaudire è il coraggio. Perché Bondu ha l’ardire di presentare uno spettacolo all’interno del cui marasma di significanti non è garantito intercettare il senso, o un senso. Non si corre il rischio di navigare in superficie. Pensiamo, qui, a Pasolini, Bernhard e Brecht. Bisogna «sbagliare meglio», direbbe Beckett. E chi ci insegna, dentro questa Dévotion a sbagliare meglio, a proseguire il cammino nonostante nessuno di noi sappia più se sia più possibile credere nell’arte o, una volta per tutte, cessare di credervi? Il poeta o l’idiota dostojevskiano, che si relaziona a zombie, animali e clochard con un identico sorriso pacificatore, attraversando topos, cliché e mostruosità della nostra società europea.
Perché intelligentemente l’autore qui convoca l’Europa, e non dà conforto al pubblico immergendolo in un clima post bellico popolato di animali totem, foreste e esserini colorati, inoffensivi e rassicuranti che sapranno condurci fuori dalla crisi. Perché la responsabilità è una bestia da guardare dritta in faccia, se possibile negli occhi. Solo allora un’alba differente è possibile: è pronta, è già lì che ci aspetta.
Margherita Coldesina