Il coraggio di Giampaolo Pansa, cronista unico e “rompiscatole”
Giampaolo Pansa è morto ieri a Roma all’età di ottantaquattro anni: era uno degli ultimi grandi cronisti italiani. Unico. In quasi sessant’anni di mestiere – un terzo dei quali prestati alla professione di storico – ha narrato la Storia d’Italia attraverso le lenti della politica, dei suoi occhiali e del binocolo che reggeva negli spalti del pubblico in Parlamento per scrutare i volti degli onorevoli e dei senatori. Cogliere l’espressività, i tic, i vizi, gli sguardi dei protagonisti dell’arena politica di allora – e non solo la notizia – era una delle tante “specialità su carta” del giornalista piemontese.
Congressi, riunioni di partito, elezioni di segretari, complotti di palazzo di ogni genere (Prima Repubblica a gogò): Pansa ha visto tutto. Decine le testate per cui ha scritto – un record che in Italia appartiene solo, o quasi, a Massimo Fini – migliaia gli articoli; e in edicola fino all’ultimo col Corriere della Sera, che in una colonna vicino alla firma, elogiava l’anziano decano del giornalismo con la scritta celebrativa: “Ritorno in Via Solferino”. Tutto era iniziato nel 1961 a La Stampa di Giulio De Benedetti con un articolo sulla tragedia del Vajont; poi fu il turno di Giorno e Messaggero quindi, nel 1977, la corte della Repubblica di Eugenio Scalfari (“Barbapapà”), dove Pansa non solo diventò vicedirettore, ma si affermò nel panorama mediatico di allora come uno dei maggiori opinionisti ed editorialisti, assieme a Giorgio Bocca. Una star.
Per Giampaolo Pansa la professione di giornalista non era solo un mestiere per tirare a campare: era una malattia, una passione folgorante; una dipendenza. Non solo egli ha dato un contributo decisivo al lessico giornalistico – l’espressione “Balena bianca” per identificare la Democrazia Cristiana è sua – e diversi nomignoli ai protagonisti del suo tempo – Arnaldo Forlani era il “Coniglio mannaro”, Fausto Bertinotti il “Parolaio rosso” –, ma ha obbligato intere generazioni a rivedere criticamente il periodo del “terzo” Fascismo (quello della Repubblica di Salò, dopo l’iniziale rivoluzionario e quello “assestato” dell’impero).
La guerra civile del 1943-1945 – e Pansa mai si stancò di definirla tale – era rimasta fino agli anni Duemila (e ancora oggi, per la verità) un triennio estremamente controverso e con il quale pochissimi italiani hanno genuinamente fatto i conti. Con il celebre Il sangue dei vinti, Pansa diede (da sinistra) voce a chi – dopo vent’anni di Fascismo – usciva sconfitto nella battaglia della Resistenza. Questa, sapientemente accalappiata da una fazione politica che ne ha fatto a livello retorico la massima cifra per oltre settant’anni. Nel best seller Pansa denunciò diversi atti criminali ed efferatezze ad opera dei partigiani rossi; non solo nei confronti dei fascisti (o ex fascisti), ma pure dei partigiani bianchi, cattolici, defilati: meno “famosi” e rumorosi di chi cantava “Bella ciao”, ma che – ugualmente – il sangue per le basi di una nuova Italia lo versò eccome.
Pansa ha vissuto due vite: un cronista da strada come lui ne vive tante, ovviamente, ma nel suo caso queste sono riassumibili nel “pre” e “post” Il sangue dei vinti. Elogiato a sinistra per decenni (vilipeso a destra), questa lo scaricò e lo tacciò di tradimento quando lo storico Pansa intraprese la nota opera di revisionismo. E revisionismo non vuol dire riscrivere la storia; significa aggiungere voci, pezzi o brandelli. Lasciati in sospeso, nascosti, dimenticati. I lavori di Pansa, che dagli anni Duemila ha approfondito in diverse opere il triennio 1943-1945, non hanno ricevuto grandi smentite, se non gli attacchi di chi prima gongolava leggendo il suo “Bestiario” su Panorama e l’Espresso e poi si sentì trafitto da un giornalista che intendeva far luce su un periodo oscuro e controverso. Già scritto.
Il corsivista del Monferrato ha avuto il coraggio di mettere in discussione una storia scritta dai “vincitori” (che poi furono in gran parte americani) e di andare controcorrente: contro un mondo culturale di cui era parte e che se lo era intestato (analogo, con le debite differenze, il caso di Oriana Fallaci), per poi scaricarlo. I suoi libri, decine di decine, sono manuali di giornalismo: Pansa ha scritto di tutto. Storia, cronaca, romanzi, raccolte di ogni personaggio che ha calcato la scena politica del Belpaese. Il tutto, nella semplicità di linguaggio e forma che gli hanno consentito di sistemarsi, se non sul podio, nell’olimpo dei giornalisti.
“Giampa” Pansa era un rompiscatole: amava definirsi così; un modo per dire che era un vecchio cronista curioso. L’insegnamento del giornalista Pansa è difatti la passione per la professione; quello dello storico Pansa è che la Resistenza – e troppi ancora non l’hanno capito o fanno finta di non capirlo – non è il bottino di una parte politica, ma il patrimonio di tutta una nazione.
Amedeo Gasparini