L’Italia, le riforme mancate e la globalizzazione
«I paesi che non crescono e non fanno le riforme prima o poi si trovano nei guai a causa dei conti pubblici. Da un lato hanno disavanzi eccessivi; dall’altro, alcune delle cure necessarie per risanare i loro bilanci […] aggraverebbero ulteriormente il disavanzo.» Sembra una profezia quella di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi che, nel loro Good-bye Europa del 2008, diagnosticavano uno dei più grandi mali che affliggono tutt’ora l’Italia. In assenza di riforme è impensabile essere in grado di affacciarsi al mondo globalizzato e captare al meglio le sfide del domani. Allora l’Europa tutta era sull’orlo di una crisi che sarebbe stata importata dagli Stati Uniti e poi esplosa con la crisi dell’Euro. Le sfide globali di oggi invece impongono all’Italia di deve decidere come affrontare il continuo turbinio della globalizzazione, tenendo conto del Covid-19, delle difficoltà dei giovani ad entrare nel mercato del lavoro, della crescita economica insoddisfacente da anni.
Aggiustamenti nel mercato del lavoro andrebbero messi urgentemente in cantiere. In Italia il costo del lavoro è molto alto – basti pensare che tra il 2000 e il 2007 è rimasto pressoché invariato in Germania, mentre in Italia è aumentato di circa il venticinque per cento. Il risultato, non sorprendentemente, è misurabile in una bassa crescita. Secondo Luca Ricolfi (La società signorile di massa) «la produttività del lavoro del sistema-Italia non è solo ferma da vent’anni, ma è […] molto più bassa di quello che sarebbe richiesto ai nostri consumi (e dai nostri costumi): […] da mezzo secolo viviamo al di sopra delle nostre possibilità […] La società in cui viviamo è piena di problemi […] ma, fondamentalmente, resta una società opulenta, molto più ricca di com’era qualche decennio fa. Chi rimpiange i Glorious Thirty, i gloriosi trent’anni del compromesso socialdemocratico, non sembra rendersi conto che l’ampiezza del welfare è oggi maggiore e non minore di allora, e che i consumi di oggi sono di gran lunga superiori a quello degli anni Settanta e Ottanta. Chi denuncia l’aumento “esponenziale” delle diseguaglianze di reddito negli ultimi decenni, ignora che […] da vent’anni quelle diseguaglianze sono sempre più o meno della medesima entità».
Su scala globale le diseguaglianze sono diminuite. Tuttavia, la fotografia regionale varia da paese a paese. Certamente il semplice fatto che è cresciuta l’opportunità di ciascuno di tuffarsi del mercato globale e dunque presentare le proprie skills al mondo, è un grande successo della globalizzazione e dei mercati integrati. Così come lo è la crescita economica mondiale che, al netto della pandemia, cresce in maniera stabile da anni, sradica progressivamente la povertà assoluta, armonizza le regioni, crea nuove possibilità per gli individui. Questo non vuol dire che all’interno dei singoli paesi non ci siano problemi di crescita o occupazione. Mentre dal 1995 al 2020 la produttività in Francia è cresciuta del ventuno per cento; in Italia non si è arrivati all’uno. A fronte di una scarsa crescita economica, a crescere in Italia sembra sia stata solo la pressione fiscale, pari al quarantadue per cento. Per l’Europa nel suo complesso, la buona notizia degli ultimi vent’anni è che il grande male che ha reso instabili paesi ed economie per decenni – l’inflazione – è scesa globalmente rispetto alle doppie cifre di un tempo che, in primis, penalizzavano i meno abbienti.
Anche in Italia, l’inflazione è diminuita: dal 20.2 per cento nel 1980 all’1.7 nel 1999. Quanto alla crescita, questa in Italia è stata così scarsa che ha disseminato una sfiducia complessiva nell’intero processo di globalizzazione, il grande motore delle economie dagli anni Ottanta in poi. Nell’intervallo 1999-2016 il PIL italiano è cresciuto del 4.5 per cento (media di 0.25 all’anno). Sembrano lontani i tempi in cui la medesima percentuale era riferita al PIL su base annua. Quando, negli anni Cinquanta-Sessanta, ricorda Roger Abravanel (Corriere della Sera, 24 novembre 2019) «l’economia italiana cresceva più della media europea». Tuttavia, la crescita che è continuata dagli anni Settanta agli anni Novanta non era una ricchezza “sana”, quanto «drogata dalla spesa pubblica provocata da riforme fatali (pensioni, regioni, statuto dei lavoratori) che facevano esplodere il debito da meno di 50 a più di 100% del PIL.» È in quegli anni che va ricercato il lassismo – e l’occasione mancata – per le riforme, a favore di una scarsa abitudine alla competizione, di una spesa pubblica come traino della crescita, di un’iper-regolamentazione del mercato del lavoro.
Al momento in cui la globalizzazione si è palesata, l’Italia ha smesso di crescere o quasi. Come se il paese di fosse addormentato mentre arrivavano i rinforzi che avrebbero messo il turbo all’economia. E nel frattempo, anche per via di questa inaccettabile dissonanza, molte aziende hanno lasciato il paese. Come mai? Perché in assenza di riforme significative per entrare nella globalizzazione, è improbabile poter trarne buoni frutti nel lungo termine. L’Italia non si è fermata per colpa della globalizzazione, ma per l’incapacità di cogliere i vantaggi della globalizzazione stessa e la necessità delle riforme che questa imponeva e impone. Altri paesi sono stati in grado di farlo. Nel 1999 il reddito medio in Germania era del cinque per cento più alto rispetto a quello italiano; nel 2016, del venticinque. Quanto alla produttività del lavoro, alla prova della globalizzazione questa è stata diversa in diversi paesi d’Europa. Come riportato da Carlo Cottarelli (I sette peccati mortali dell’economia italiana) la produttività del lavoro in Italia è aumentata del 3.5 per cento tra il 1998 e il 2016. In Germania, nello stesso intervallo di tempo l’incremento è stato del quarantasette per cento. Stesso discorso per l’export. Cottarelli ricorda che in quei diciott’anni le esportazioni italiane di beni e servizi sono aumentate del venticinque per centro in Italia, contro i centoquindici della Germania.
Di fronte alle sfide e alle opportunità della globalizzazione, l’eccessivo costo del lavoro e l’assenza di riforme in quell’ambito hanno avuto gravi ripercussioni sulla performance economica del paese, nonché sul tasso di disoccupazione. Per adocchiare maggiore crescita economica e abbassare il tasso di disoccupazione, rilanciare l’economia – dunque i consumi – sarebbe necessario abbassare il costo del lavoro e intavolare serie riforme. L’alternativa alla necessità di cambiare per tornare a crescere – questa volta non a debito, come avveniva negli anni Ottanta – non può essere la cosiddetta decrescita felice, anche perché, lo rilevavano sempre Alesina e Giavazzi, se si smette di crescere è vero che il tenore di vita non cambierà molto specialmente nel breve termine, ma «saremo diventati un paese irrilevante e soprattutto avremo perduto tutti i nostri giovani migliori, senza essere stati capaci di attrarne neppure uno paesi più vivaci del mondo».
L’Italia ha un grande potenziale di crescita. Deve avere il coraggio di intavolare le riforme giuste e/per saper cavalcare al meglio la globalizzazione che, come ricorda Sergio Romano (CdS, 9 maggio 2020) «significa quasi sempre maggiore ricchezza. Quanto più numerosi sono i legami che ci uniscono agli altri continenti, tanto più cresce il nostro benessere. Ma […] quanto più cresce la nostra ricchezza, tanto più crescono i rischi.» Le riforme servono anche ad attutire e prevenire i rischi, la globalizzazione è saper dare risposte ai rischi e al contempo essere in grado di cooperare con gli altri attori per arginarli. Tuttavia, molto, non tutto, parte da casa. Un’economia solida, un mercato del lavoro flessibile e aperto ai giovani, una buona produttività del lavoro e un basso costo del lavoro possono aiutare a rilanciare non solo la crescita economica domestica, ma anche l’entusiasmo perduto da parte di molti, i cosiddetti discontents, nei confronti della globalizzazione.
Amedeo Gasparini