Bruno Amaducci come l’abbiamo conosciuto
La scomparsa di Bruno Amaducci, avvenuta il 26 gennaio all’età di 94 anni, ricorda a noi due componenti dell’arte della musica: l’artigianato dei mezzi e l’ambizione dei fini. Non esiste musica eseguita che prescinda da una serie di proprietà che senza diminuirne il valore si possono definire professionali. Nel caso di Bruno Amaducci tali proprietà risaltavano evidenti soprattutto nel repertorio operistico. A un giovane direttore, oggigiorno, difficilmente sarà dato di formarsi dentro quel che resta (se resta…) della grande tradizione dell’opera lirica italiana, un fenomeno che permeava di sé tutte le categorie sociali. Come definirlo quell’ambiente? Ne trovo un esempio in un mazzetto di libretti d’opera che mio zio Silvio Salvatorelli, di professione pittore (non di quadri: di pareti e di soffitti), nato a Roma, morto a Lugano nel 1940, mi lasciò a ricordo di una passione che davvero teneva uniti l’alto e il basso della scala sociale. Amaducci, nato nel lontano 1925, in quel clima nacque, crebbe e si formò: un ambiente popolare (quello di Via Lambertenghi, della “vecchia” Lugano) in cui si poteva dal vivo ascoltare tantissima musica – e quindi vedere come di fatto la si produceva: bande musicali e cori di chiesa, che cullarono il suo gusto e incisero nella sua formazione. Il suo modo diretto di dirigere l’opera, che lo rendeva adatto a calarsi in qualunque situazione, fosse al Metropolitan o al vecchio Kursaal di Lugano, lo caratterizzavano come direttore d’orchestra. Era una “naturalità” di approccio che, a mio avviso, gli serviva meno nel repertorio sinfonico, che mi pare affrontasse con rispetto ma non con la stessa familiarità.
Lo stesso approccio diretto Bruno Amaducci lo dimostrò nelle moltissime iniziative culturali che animò nella “sua” Lugano negli anni del secondo dopoguerra, quando ormai i giovani la musica la studiavano all’università e la volevano orientata verso orizzonti culturali con la “C” maiuscola. La passione intransigente che lo animava lo rese talvolta impaziente (conservo di lui un paio di lettere di fuoco dopo quel che mi ero permesso di scrivere sul Corriere del Ticino). Non ti toglieva l’amicizia, ma teneva la barra diritta nella direzione che secondo lui era la migliore. Quel modo diretto era uguale alla semplicità di approccio che denotava sul podio.
La giovane Radio gli deve molto, ma anche la sua città.
Enrico Morresi