A Il bel Danubio a Lugano con qualche perplessità
Non tutto superlativo nell’atteso concerto dei Wiener Philharmoniker a Lugano il 18 gennaio! A cominciare dagli sciagurati applausi scattati alla fine del primo tempo del Terzo Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven: dimostrazione che per fare un pubblico adulto non basta una sala da concerto nuova. Ma anche il pezzo di Charles Ives (Decoration Day), dato in apertura, è apparso svagato, come poco sentito: può darsi che non sia nelle corde dei Wiener, la scelta era senza dubbio del direttore Michael Tilson Thomas. E per dirla proprio tutta, neppure il pianista Igor Levit è stato sempre convincente – se non per la tecnica, superlativa! – con un tempo lento del citato Concerto tirato troppo per le lunghe e con un arco dinamico eccessivo tra il sussurrato e il declamato. Chi legge sa delle mie riserve circa le interpretazioni “storicamente informate”: ma, insomma, tra il pianoforte di Beethoven e un moderno Steinway sono pur passati duecento anni, e ne va tenuto conto! Detto questo, dirò del molto bello che pure c’è stato, il 18 gennaio. Senza ripetere quel che di Michael Tilson Thomas, il direttore, ha scritto Enrico Parola nell’Osservatore Magazine del 12 gennaio.
Dei Wiener Philharmoniker non ci si stanca di lodare la compattezza, la qualità del suono, l’à plomb favoloso. Si sa pure che non hanno un direttore stabile (lo ribadiva il programma di sala), per cui in definitiva è quasi sempre l’orchestra a imporre il tono del discorso. Oggi le grandi orchestre si somigliano tutte e il modello vincente, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, grazie alla diffusione della musica registrata, sono state le orchestre inglesi e americane. Le piccole imitano le grandi in quantum possunt. Ma i Wiener no! L’orchestra ha conservato il suono fermo, scuro, che sembra risalire dai tréfonds dell’anima danubiana. Nel loro lungo canto del secondo tempo della Seconda di Brahms i celli di questa orchestra parevano dire a noi, svagati musicofili del post-Novecento: l’autore lo voleva così! Ci sono evidentemente spiegazioni meno approssimate. Un esperto vi direbbe che i cornisti dei Wiener non usano la ritorta in sibemolle, che cambia un po’ il timbro dello strumento. Ma anche le trombe: che sono a cilindri invece delle più comuni a pistoni e hanno un canneggio diverso e quindi anche un timbro più velato. E pure i legni, particolarmente oboi e clarinetti, presentano leggere differenze di costruzione (paradossalmente è la giapponese Yamaha l’unica a produrli ancora!). Insomma, che cos’e? Il “suono danubiano”? Alcuni lo chiamano così. Comechessia, il concerto dei Wiener Philharmoniker a Lugano ci ha regalato qualcosa che cento altre orchestre al mondo non saprebbero darci.
Enrico Morresi
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