Al FIT Filmati sospesi tra artificio e verità
La rassegna del Festival Internazionale del Teatro ha previsto un paio di film documentari realizzati da registi che poi troveremo anche nel corso della stagione di LuganoInScena. Impostazioni stilistiche differenti ma che hanno in comune, come molte delle creazioni dell’edizione FIT di quest’anno fedeli al tema dato della violenza e del potere, di muoversi tra realtà e finzione, testimonianza e ricostruzione, sull’ambiguo confine della storia documentata e della sua mimetica rappresentazione in un dichiarato set cinematografico/teatrale. Non si può parlare dunque di “documentari” in senso stretto.
The Congo tribunal di Milo Rau (30 settembre alla Sala 4 del LAC) è la messa in scena di un tribunale simbolico, in mancanza di uno vero, che giudichi i crimini commessi a spese della popolazione congolese. Una terra colma di ricchezze minerarie che hanno fatto gola all’arroganza d’avvoltoio dell’industria multinazionale con la conseguenza di contratti capestro, mediati dalla complicità e corruzione governative, espropriazioni di terre, promesse non mantenute, riduzioni in miseria degli abitanti cacciati via dai loro campi fertili, uccisi i loro animali dalle acque avvelenate; da qui poi la guerra civile, alimentata con spregiudicatezza, con violenze da ambo le parti, fino ad arrivare ai massacri di civili, nel silenzio della comunità internazionale.
Nessun attore, tutti i partecipanti, giudici (con la brillante assenza dell’ONU), testimoni, difensori, accusatori, vittime e complici dei carnefici, partecipavano nel loro autentico ruolo alla replica fedele del rituale. Le dichiarazioni ad effetto erano alternate a filmati, riprese sul posto con altre testimonianze di denuncia e la figura del regista che si aggirava sul campo, in una speculare implosione da “dietro le quinte”. Nonostante questi filtri, il coinvolgimento è diretto, il “re è nudo”, si smascherano le ipocrisie, la difesa sembra debole; Rau ha dato voce alle vittime che, in questa guerra rapace, hanno perso tutto, affetti, case, terre e lavoro, a cui hanno distrutto ogni mezzo di sussistenza. E pur non essendoci la possibilità di una condanna “legale”, la risonanza mediatica ha portato alla ribalta la vicenda, all’impossibilità d’ignorarla. Ritroveremo Milo Rau in maggio con Hate Radio sul genocidio ruandese.
Simile ma al tempo stesso diverso è Teatro de Guerra (ieri, sempre alla Sala 4 del LAC) di Lola Arias che rievoca la guerra degli anni ’80 tra Argentina e Gran Bretagna per Malvinas/Falkland. Anche in questo caso scene sul posto si alternano alla ricostruzione a volte mimetica in un set che mette a confronto sei veterani, combattenti dell’epoca, tre di una fazione, tre dell’altra, ex nemici dunque. Interessante sono le dinamiche che si creano in questo incontro dove sono chiamati a recitare un ruolo che è però documentato nella memoria. Si muovono in continuazione tra ieri e oggi. Devono presentarsi, mostrare gli oggetti, abiti, fotografie del ricordo, dialogare tra loro, imparare a conoscersi, con tutte le difficoltà, pure linguistiche, che questo comporta.
La regista attraverso la sua indagine affronta anche le problematiche legate a sofferenze post-traumatiche indotte dall’esperienza di violenza e morte. Nello scambio di ruoli, saranno messi nella condizione di immedesimarsi di nuovo nella divisa, di mettersi letteralmente nei panni dell’altro come in uno psicodramma, di mimare goffamente le situazioni di un tempo, come bambini che giochino alla guerra, con la differenza di rifare ciò che nella realtà è avvenuto, come il trovarsi accanto al compagno morto, a doverlo seppellire (nella scena finale). La denuncia avviene attraverso una prospettiva il cui evidente presupposto fittizio è lo strumento stesso di smascheramento di quanto inutile e stupida sia la guerra. La dilatazione dei tempi, certe cadute di ritmo (dovute all’atteggiamento dilettantesco degli interpreti) smorzano un po’ l’impatto, rendono meno incisivo il documentario senza però impedirne la presa di coscienza. Di Lola Arias si potrà vedere al LAC in marzo Minefield (Campo minato).
Manuela Camponovo