Al via il Festival del libro muraltese

Un’apertura in grande stile quella di ieri sera del Festival del libro muraltese. L’ospite d’onore non necessita di grandi presentazioni: Antonia Arslan, di origini armene, è per tutti colei che ha saputo associare il genocidio armeno a dei volti in carne ossa, colei che sa, davvero, cosa abbia potuto significare. Tradotto in ben 23 lingue, alla sua 38esima edizione poco dopo la pubblicazione nell’allora 2004 da Rizzoli, La masseria delle allodole è stato davvero l’aprirsi dello sguardo del mondo su una (purtroppo non l’unica) grande tragedia consumatasi nel XX secolo. Per testimoniare il genocidio armeno, la Arslan – armena da parte di padre – ha dovuto fare un profondo lavoro di ricerca e scavare anche nelle piaghe più dolorose della sua storia famigliare. Per questo un libro come il suo sarà sempre attuale, attualissimo, ed è stato per il pubblico ticinese un onore poterla incontrare, grazie alla scelta di eleggerla madrina del Festival del Libro di Muralto.

Il prof. Renato Martinoni intervista Antonia Arslan, autrice de “La masseria delle allodole”.

“Questo film lo voleva fare Spielberg”, rivela la scrittrice ai presenti nella gremita Sala dei congressi del comune di Muralto. “Ma io volevo che loro soltanto, i fratelli Taviani, vi si immergessero dentro e a ben vedere non mi hanno deluso: si sono gettati nell’impresa con la volontà di assorbire ogni minimo dettaglio di questa storia, la loro è stata davvero un’esplorazione a tutto tondo di un tema dolorosissimo e delicato”. “È questo che distingue un buon regista: non gli devi dire cosa fare, le cose le vede da solo”, aggiunge.

Ma non c’è – incalza allora il professor Renato Martinoni intervenuto durante la serata di inaugurazione a intervistare la scrittrice – un modo tipico di vedere al femminile, che forse lo sguardo al maschile del regista non sa cogliere del tutto? “Non esiste un modo di vedere femminile. Qualcuno dice che sia il dettaglio. Ma poi abbiamo Proust che ti fa un romanzo intero su un dettaglio. No, piuttosto credo ci siano delle esperienze che possono essere solo femminili, una delle quali, su tutte, la maternità”. E di maternità, di rapporti tra madri e figli, è fatta tutta la pellicola dei fratelli Taviani: di sguardi tra genitori e bambini increduli, urla sommesse, grida trattenute davanti a un orrore cui, pur consapevoli ormai di quello che è stato il genocidio armeno, non riusciremo certo a dimenticarci facilmente dopo la visione del film, anche se rivisto tante volte.

Ma è contenta Antonia Arslan, in fin dei conti, della resa cinematografica dei fratelli Taviani? Dopo aver visto e rivisto il prodotto finale negli anni può dirsi soddisfatta? “Sì, anche se devo riconoscere la presenza di qualche piccola lacuna. Ad esempio, da atei, non accennano affatto nel film che gli armeni erano una minoranza cristiana. Questo discorso non viene portato avanti. Però ci sono, naturalmente, da parte loro anche delle intuizioni geniali: penso all’avidità che piano piano prende corpo e si impossessa dei funzionari di Stato turchi. Persino le mogli di questi uomini diventano terribilmente avide degli averi degli armeni, di cui sognano di impossessarsi, fosse anche solo una specchiera o un vaso di porcellana. Emerge qui un grande tema, che ancora oggi ci fa riflettere nei fatti di cronaca quotidiani: quello della complicità”. E qual è, in fondo, il messaggio del film? C’è solo una tragedia da constatare o forse, qualche barlume di speranza prende corpo? “Emerge, in controluce, la figura della donna; tutto il popolo armeno faceva affidamento sulla donna e diventa molto problematico per i turchi sbarazzarsi di lei. Questo deve far riflettere”. E, ancora più soddisfatta, la scrittrice rivela: “A piacermi, soprattutto, è la fine della pellicola, che allude ad un riscatto per gli armeni. I fratelli Taviani scelsero infatti di dedicare la scena conclusiva ai cosiddetti processi di Istanbul, della cui esistenza pochissimi sanno. Essi equivalgono, in una sorta di cruda ambivalenza, ai processi di Norimberga: ci fu un tentativo di condanna dei funzionari turchi direttamente coinvolti con lo sterminio già nei primi anni successivi la tragedia; purtroppo, però, come spiega il film questa linea punitiva fu quasi subito accantonata”.

Felice, dal canto suo, anche Marco Solari, presidente del Locarno Festival e ispiratore dell’iniziativa, accolta poi favorevolmente dal sindaco di Muralto, Stefano Gilardi; soddisfatto, anzitutto, perché la Arslan (come ha rivelato commossa lei stessa) ha avuto per la prima volta nella sua vita l’occasione di commentare il film tratto dal suo romanzo prima della visione; ma contento anche perché il Festival del libro va a completare la cosiddetta “primavera locarnese”. “Siamo riusciti ad assecondare una richiesta del Cantone che ci aveva chiesto di far vibrare la forza del Festival del film locarnese lungo tutto l’anno. Così, dopo L’immagine e la parola e gli Eventi letterari del Monte Verità, il Festival del libro viene simbolicamente a completare la trilogia. Per dimostrare una cosa essenziale: Ticino terra d’artisti e terra del libro; la produzione libraria della Svizzera italiana è ricchissima”.

Questa mattina, invece, la presentazione del volume “Le imprese mariane della Chiesa dell’Assunta a Locarno”, firmato dai professori Ottavio Besomi e Stefano Barelli, con la consulenza della giovane ricercatrice Benedetta Foletti, che rivela i segreti di un luogo sacro molto caro ai locarnesi meglio noto come “Chiesa nuova”. Un lavoro di scavo e recupero teologico non facile: “Serve per capire le imprese il ricorso a testi della tradizione omiletica e della trattatistica. I motti infatti sono affidati a dei cartigli eleganti molto decorativi che si sciolgono a seconda dell’immagine e della posizione architetturale”, sottolinea il prof. Besomi. “E la cosa strana – nota – è che padre Giovanni Pozzi pur molto attento a queste forme di espressione artistica non ne ha mai parlato”. Così, il volume ha dei pregi evidenti: oltre che arricchire gli studi sul latino secentesco, permette di approfondire la storia della pietà ticinese in epoca postridentina: “Il sistema iconografico è stato elaborato in funzione antiprotestante, l’arte diventa qui strumento di dottrina, elaborazione iconica della religione. È la Chiesa tridentina iconofila che combatte l’iconoclastia della Riforma”. Per finire, lo studio scientifico presentato questa mattina colma una grande lacuna: “Si può facilmente presumere che le imprese non siano state viste. Se qualcuno le ha viste non le ha guardate con la necessaria attenzione. Una situazione cui bisognava porre rimedio, essendo questo ciclo locarnese un unicum nella Svizzera italiana”, conclude il prof. Barelli.

Laura Quadri

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