Applausi al LAC per il Misantropo di Malosti

Per coincidenza, dopo il cechoviano Io non sono un gabbiano, rappresentazione di lunedì al Foce, ieri, nella Sala del LAC, è andata in scena un’altra rivisitazione di un classico in chiave attualizzata nella forma, nello stile, nel linguaggio, Il misantropo ovvero il nevrotico in amore da Molière E qui si vede la differenza con la realizzazione, in questo caso, di un lavoro serio, complesso, coerente che, pur nei suoi siparietti mimico-grotteschi, non concede nulla ad una facile spettacolarizzazione. Valter Malosti che, oltre ad essere interprete e regista, ha curato l’adattamento insieme a Fabrizio Sinisi e che già si era cimentato con La scuola delle mogli, ha compiuto un’approfondita ricerca di parallelismi e rimandi, sia nella biografia e in altre opere dell’autore francese, sia nella drammaturgia contemporanea, senza che suonino incongruenze, anzi facendo risaltare la modernità del testo seicentesco.
Al centro una pedana, profilata a destra e sinistra da colonnine fosforescenti: è il centro dell’azione, del concreto e al tempo stesso simbolico palcoscenico molieriano, il ring anche dove avvengono gli scontri dialettici, spesso a due, tra i personaggi che interpretano mondi e modi di pensiero contrastanti. All’inizio come alla fine scene tratte dal Don Giovanni, considerato speculare e oppositivo al Misantropo, nell’amore come nel concetto esistenziale, ma incastrato in esso.
Alceste è un assolutista, arrogante, brutale, un terrorista della verità votato al politicamente scorretto nello scagliare la sua rabbia patologica contro la società e i suoi simili di cui denuncia in continuazione l’ipocrisia, la falsità, i formalismi vuoti d’intenti, con la violenza del “riformatore del mondo” di Bernhard, drammaturgo a cui s’ispira in particolare Malosti. Vuole continuamente fuggire ma non fugge perché ha bisogno della stessa infelicità che gli procura, il narcisismo si nutre del suo stesso odio. Così è del trittico femminile che gli gira attorno, la sincera e autentica Eliante (Roberta Lanave), la severa, rigida Arsinoè (Sara Bertelà), la frivola, bugiarda e traditrice Célimène (Anna della Rosa), ed è attratto inevitabilmente proprio da quest’ultima, la più lontana dalla sua morale, la femmina che lo corrode di gelosia, “un’antologia di tutto quello che tu dici di detestare”, come afferma l’amico, il realista alter ego, il suo Sancho Panza, Filinto (Paolo Giangrasso). Ma è l’unica di cui non può fare a meno, attirato com’è proprio dai suoi difetti, innamorato dell’amore assoluto, dell’Uno, quanto Don Giovanni di Tutte. Dialoghi brucianti avvengono sulla pedana tra i personaggi, le donne, gli uomini, su quella pedana-palcoscenico-vita, che contiene e delimita la follia. Risaltano ad esempio, nella loro attualità, le accuse di Arsinoè contro Célimène, contro quel suo modo facile di comportarsi che rovina l’immagine della donna. Una pedana-teatro, l’alimento essenziale per Alceste-Molière nel momento stesso in cui se ne sente divorato. Non si può sfuggire perché la malattia è la vita stessa.
Il contorno sono i lustrini scintillanti, i siparietti farseschi di balletti che vedono protagonisti i fantocci-spasimanti di Célimène, a voler sottolineare la futilità dell’apparenza, i meccanismi di ignoranza, superficialità, adulazione che dominano le società, quelle del Seicento come quelle di oggi. Qualche intrusione canora, in quella trasversalità delle arti tipica del regista, è utilizzata con discrezione. Molti gli spunti di riflessione offerti. Tra gli interpreti, tutti ottimi, citiamo ancora Matteo Baiardi come Clitandro, Edoardo Ribatto, Oronte, Marcello Spineta, Acaste.
Purtroppo diversi vuoti in platea per uno spettacolo che avrebbe meritato l’esaurito, ma lunghi applausi e numerose chiamate.

Manuela Camponovo

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