Crisi e declino: c’era una volta il Venezuela

Tombe profanate, blackout continui, assenza di servizi, treni fermi e infrastrutture fatiscenti: uno scenario di guerra. E invece no: è il Venezuela del 2019. Un Paese in cui dal 2011 ad oggi l’economia si è contratta del settanta per cento; in cui l’ottantasette per cento dei suoi abitanti, cioè ventisei milioni di persone, vive in povertà; in cui mancano i beni di prima necessità; in cui nel 2016 la media di massa corporea persa da ogni abitante era di otto chili e nel 2018 si è alzata a undici. Un Paese in ginocchio. Il Venezuela nel secolo scorso era uno delle terre più prosperose del Sudamerica, dal momento che aveva – e ha tutt’ora – le riserve di petrolio (nella Orinoco Belt) più vaste del mondo: dalla elezione di Nicolás Maduro – succeduto a Hugo Chávez nel 2013 – le cose non hanno fatto altro che peggiorare per la «Repubblica Bolivariana del Venezuela», come ama ricordare enfaticamente il leader nei sui discorsi alla folla. L’idea di un salvifico socialismo (reale) si sta lentamente frantumando, visto l’appoggio di molte comunità internazionali nei confronti di Juan Guaidó, “eletto” nuovo salvatore della patria (fino – speriamo di no – al prossimo disastro economico).

Ad aumentare sono il numero di omicidi, il tasso d’inflazione e il livello dei prezzi. Elementi che renderebbero la situazione quasi irreversibile: nel frattempo, il contesto economico è già unanimemente stato definito molto peggio della Grande Depressione che calò sugli Stati Uniti negli anni Trenta e il collasso dell’Unione Sovietica negli anni Novanta. Secondo The Spectator Index, il Prodotto Interno Lordo del Venezuela (PIL) era di 344 miliardi di dollari nel 2001: oggi si è ridotto a meno di un quarto, cioè ottantasette. Nel dettaglio, la crescita – o meglio decrescita – è stata –3.2 per cento nel 2009, +4.3 nel 2011, +1.3 nel 2013, –6.2 nel 2015, –16.5 nel 2016 (anno nero del Venezuela, quello delle prime proteste di piazza), –14 nel 2017, –18 nel 2018 (anno delle elezioni-truffa). Il PIL pro capite nel 2011 era di 11’540 dollari, l’anno scorso poco più di un quarto, cioè 3’300; la percentuale di PIL in relazione al PIL mondiale era dello 0.8 per cento nel 1988, 0.62 dieci anni dopo, 0.58 nel 2008 e 0.24 nel 2018 (complice, c’è da dire, anche la globalizzazione che ha cambiato e spostato gli equilibri commerciali a favore dei giganti americani e cinesi). La spesa pubblica in relazione al PIL si è moltiplicata per otto in dieci anni: dal 2008, quando questa era solo il venti per cento, nel 2018 è arrivata al 162 per cento. Il che vuol dire che per spendere quello che spende in un anno, lo Stato venezuelano dovrebbe incassare l’equivalente di un anno e mezzo.

Su centotrentasette paesi presi in esame, il World Economic Forum ha sintetizzato la posizione del Venezuela. Per quello che riguarda la fiducia che i cittadini venezuelani hanno nei loro politici, il paese è al 133esimo posto; 137esimo per quello che riguarda l’affidamento delle forze di polizia; 135esimo per il crimine organizzato, 136esimo per la spesa pubblica elargita scelleratamente “a manetta” dal governo centrale, centoventesimo per quanto riguarda l’educazione scolastica. Sempre il WEF ha condotto uno studio nel 2017 su quali sono i paesi che hanno la maggiore capacità di attrarre talenti: possono essere fieri i cittadini elvetici (la Svizzera è al primo posto), poi gli Emirati Arabi Uniti, il Regno Unito, gli Stati Uniti (quinto posto), il Canada (decimo), la Germania (tredicesimo), l’India (il diciannovesimo), la Cina (il ventitreesimo), la Francia (il sessantunesimo), il Giappone (settantatreesimo), la Russia (settantasettesimo), il Brasile (il novantottesimo), l’Italia (centoquattresimo, mamma mia!) ed in ultimo il Venezuela.

GoldTelegraph.com ha misurato negli anni il livello di inflazione del Venezuela: diciannove anni fa era circa al tredici per cento, trentuno nel 2002, diciannove nel 2004, ventisette nel 2010, sessantotto nel 2014, ottocento nel 2016. Nel 2018 si è toccato un livello che, almeno per chi sta in Europa, non si vedeva dai tempi della Repubblica di Weimar, a differenza della quale l’odierno Venezuela non ha a disposizione mattoni di banconote da far usare ai bambini come mattoncini LEGO, visto che non si stampano neppure più i giornali a causa dell’elevato prezzo di un bene basic come la carta. Gran parte dei venezuelani sono milionari, ma poveri: l’inflazione era del 1’090 per cento a maggio, 12’615 a luglio e 1’698’488 per cento durante il mese di febbraio di quest’anno. Ricordiamo inoltre che per compensare il crollo degli incassi dalla vendita di petrolio il governo ha pensato bene di stampare continuamente moneta (“sovrana”), aggravando ulteriormente la situazione. Inutile dire che si tratta del tasso d’inflazione – anzi, di iperinflazione – più alto del mondo, che in tal senso rende inaccessibile alla gran parte della popolazione l’acquisto anche dei beni più elementari, tra cui medicine e cibo, due elementi che erano garantiti a tutti secondo le politiche chaviste. Politiche attuate anche con ingenti prestiti chiesti all’estero (Cina e Russia in primis) e che con il lungo andare facevano certamente bene al “popolo”, ma male all’economia, che tra l’altro, fino al 2015, saliva e scendeva come sull’ottovolante. Per quello che riguarda i consumi, UBS ha calcolato quanto tempo bisogna lavorare in Sud America per potersi comprare un Big Mac partendo dal salario minimo: trentasei minuti a Santiago, quarantuno a Panama, cinquantadue a San Paolo, cinquantatré a Buenos Aires, cinquantacinque a Lima, cinquantasei a Rio de Janeiro. Oltre i sessanta minuti troviamo la capitale della Colombia, Bogotà, con un’ora e quattro minuti, mentre a Caracas il celebre panino multistrato è acquistabile solo con un mese e due giorni di lavoro. Insomma: per digerire il paninazzo capitalista ci vogliono sei ore, ma sono sessanta i giorni richiesti per poterlo acquistare nell’odierno Venezuela.

Secondo Transparency International, il trentotto per cento delle persone in Venezuela corrompe un funzionario statale – ma non per forza tale – per avere accesso ai servizi di base; in Messico il cinquantuno – la cifra più alta dell’America Centrale –, in Perù il trentanove, in Colombia il trenta, in Paraguay il ventitré, in Brasile l’undici per cento. E quando il malessere s’innalza, con esso cresce anche il tasso di violenza: secondo il rapporto del 2017 delle Nazioni Unite, il Venezuela detiene il secondo posto per gli omicidi ogni centomila persone (cinquantasette) dopo l’Honduras (centootto). Le cose non vanno bene neppure in Brasile (ventisei) o in Messico (sedici); gli Stati Uniti sono a 4.8, la Turchia 4.3, l’Arabia Saudita 1.5, il Regno Unito 0.9 e il Giappone 0.3. Sebbene i toni politici si siano alzati negli ultimi mesi, in particolare nei confronti del gigante a stelle e strisce, è utile vedere quali siano i paesi nei quali il Venezuela esporta maggiormente. Secondo l’US Trade Department, il primo partner commerciale del paese sudamericano sono proprio gli Stati Uniti, a cui va il trentacinque per cento dell’export venezuelano, costituito essenzialmente da petrolio; segue l’India col diciassette, il gigante cinese col sedici, Singapore col sei e Cuba col quattro. In sostanza, circa un quinto dell’export – ed è così da diversi anni – è destinato a paesi – Cina e Cuba – con i quali il governo di Caracas condivide l’ideologia politica; non è il caso degli Stati Uniti, che da mesi stanno allentando i rapporti col Venezuela, anche con l’embargo voluto dall’amministrazione di Washington.

E in tutto questo marasma generale c’è anche chi non ci sta e in preda alla disperazione raccoglie quel poco che gli è rimasto e lascia la sua terra, verso l’ignoto, verso una barriera a mezz’aria che si può aprire – caso raro – o chiudere. Sebbene l’emigrazione dal Venezuela non sia cosa nuova – secondo l’International Organisation for Migration erano sono partiti in 437’280 nel 2005, 556’641 nel 2010 – negli ultimi quattro anni la cosa è degenerata: 697’562 persone hanno lasciato il paese nel 2015 e 1’642’442 nel 2017. In totale, più di due milioni di persone hanno lasciato il Venezuela alla fine del 2018. Numeri enormi, che si traducono in donne, uomini, bambini, anziani che fanno code infinite per strada, sui ponti, alle frontiere del continente. Prevalentemente, per questioni geografiche, la fila dei disperati è diretta in Colombia (Paese legato al Venezuela: fino al 1831 era parte della fu Grande Colombia) che – secondo The Economist – ha accettato nel 2017 più di seicentomila migranti (il Paese sudamericano più accogliente in tal senso), fino alla cifra tonda di un milione a fine 2018. Cifre maledettamente assurde: di un Paese seduto su un mare di petrolio ma tecnicamente fallito e del quale – ahinoi – non si può dire too big to fail per tenerlo in vita.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

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