Cristina Castrillo nell’affascinante universo dei libri

Ci sono i libri, tanti libri, 150 ci ha detto Cristina, di tutti i colori e le dimensioni, naturalmente assicurando la loro maneggevolezza (niente enciclopedie per intenderci…), a comporre la scenografia. All’inizio, al centro della scena, impilati, accatastati, in un disordine calcolato, facile il rinvio ad una simbolica torre di Babele (o forse anche ad una pira sacrificale), il prologo o prodromo; gli “agenti”, gli attori, li fanno poi cadere realizzando uno sparpagliamento altrettanto calcolato; successivamente saranno composti in file per creare quattro quadrati, quindi una sorta di labirinto (anche qui i riferimenti non mancherebbero), infine un rettangolo con un cerchio in mezzo. Ma nel frattempo, alcuni vengono raccolti da ogni singolo interprete-personaggio nella simulazione di lettura.

Ci sono le parole, la cui sostanza è indagata dalla regista, Cristina Castrillo, nella varietà di prospettive. Trattandosi di libri, quelle degli scrittori alternati nelle citazioni; frasi pubbliche, da una parte di chi le scrive, dall’altra di chi le legge, l’omaggio calvinianamente sdoppiato tra autore e lettore, lo scatenamento dell’immaginazione che in quest’ultimo produce, e dell’identificazione, il partecipare ad un’avventura e farla propria, lo scoprire quello che ci appartiene nel profondo ma senza essere mai riusciti ad esprimerlo, così come si trova ora nelle righe dovute al talento altrui. Ma c’è, consistente, anche l’omaggio al libro in quanto oggetto, simbolo, il più temuto, osteggiato, annientato da chi detiene un potere illecito, il primo nemico perché pericoloso strumento di libertà e ritorna proprio come un tormentone l’evocazione di quell’incendio che fa parte della storia come della letteratura. Un grande libro, un piccolo libro nel quale si può trovare un’antica sottolineatura che rivela qualcosa di chi l’ha fatta oppure una inaspettata fotografia. Dal grande (che può essere il capolavoro) al più piccolo e minuto foglio di carta che ha anche un suo ruolo qui di protagonista, al quale si può dare qualsiasi forma si voglia, come in un origami (o anche in una pietra da lavorare); ma soprattutto spiegato, appallottolato, buttato, raccolto, spianato di nuovo, con le sue parole che passano di mano in mano come in una ideale staffetta del pensiero, gettato di nuovo, raccolto un’altra volta in una trama, in un tramandarsi infiniti. Com’è nella tradizione, che diventa espressivamente tra-dizione del Teatro delle Radici. Si trova anche in una folgorante scena il rinvio a quella sorta di Ur-libro, a quel canto primordiale (Chatwin) che qualcuno ha intonato dando il via ad una trasmissione profondamente umana, collettiva e individuale, che non si sarebbe più fermata.

Ed esiste la dimensione del privato, quella legata ad esperienze personali degli stessi attori, associata ad emozioni, sentimenti, esperienze autobiografiche, di cui viaggiano qui lacerti. E non manca nemmeno la riflessione filosofica, psicologica sul parlare, sul ripetere abusivamente e abitudinariamente frasi fatte, luoghi comuni, iterati all’infinito, usurati, fino a svuotare di senso il discorso, a ridurlo a chiacchiericcio futile, insulso o, peggio, bugiardo, atto a nascondere, piuttosto che a rivelare, ne siamo testimoni ogni giorno, incarcerati nella banalità. Le parole ci rappresentano, nel bene e nel male. Parole belle, ma morte da recuperare, parole cattive da ripudiare. Nel suo doppio, pubblico e privato, per la regista, la scrittura, le parole, quel Graffio sul bianco, come titola la sua nuova creazione, è soprattutto memoria, quella dei tanti scrittori come quella personale che un racconto ci può evocare. Ma è un “graffio” perché anche doloroso come lo è sempre il ricordare, più facile il trauma impresso nella carne che spesso oscura i momenti di bellezza. Parole che possono essere una carezza o una pugnalata. Ne uccide di più… con quel che segue.

E certo, ci sono loro, i quattro attori, due donne, due uomini, di generazioni differenti (Giovanna Banfi Sabbadini, Ornella Maspoli, Massimo Palo, Carlo Verre) che danno il loro apporto personale ma sono anche chiari personaggi, il “cieco” donchisciottesco che brandisce il suo bastone come una spada per combattere i fantasmi dell’invisibile, certamente vede ma con gli occhi dell’immaginazione, degli ideali in cui crede; gli fa da contraltare il realista, scettico, che si cala nelle parole tristi, pessimiste trovate sui libri ma anche in quel testo bianco, ancora tutto (forse) da scrivere; e ci sono i sentimenti femminili, che vorrebbero fermare la barbarie, che si ancorano al passato di minime cose. Tutti anche lettori, tutti in qualche momento vengono “fotografati” come tali, oppure ognuno messo in posa dal compagno, come fosse una marionetta, per un frammento che lo colga in un istante di ricordo. E ad un certo punto arriva anche lei, Cristina Castrillo, in quello che se fossimo al cinema definiremmo “cammeo”, per narrare un episodio, tornando, da argentina, sulle tracce del tragico passato, delle vittime che veramente quel “graffio” nelle prigioni di tortura, morte, sparizione, hanno lasciato. E dando vita ad un successivo episodio di pochi minuti di meta-teatralità pirandelliana, di discussione come nelle prove, prima della ripresa da dove gli attori erano stati interrotti. Affascinante l’uso delle luci che illuminano nel finale i volti nell’atto del leggere che tanta arte ha ritratto e che, come esperienza comune, abbiamo osservato, un volto che legge irradia in un modo di straordinaria iconicità i pensieri e i sentimenti del letto.

Quello che non c’è, come dichiarato dagli stessi personaggi, è una storia vera e propria, ma questa non c’è mai nel TdR, almeno se la si vuole trovare in una linearità di trama, sono momenti, rudimentali fin che si vuole (la definizione è di Cristina), ma che ricompongono un mosaico, dal particolare all’intero, ogni parte ne contiene una traccia, ogni traccia ne costituisce l’integrità, come quei percorsi formati dai libri messi infila che ricordano la composizione di un rituale mandala. Perché leggere è un rito da non perdere.

Spettacolo intenso, esteticamente, eticamente, vincente come sempre, al cui debutto, ieri, ha assistito un folto pubblico (quello che può contenere la sede), attento e partecipe.

Si replica al Teatro delle Radici di Lugano questa sera (ore 20.30), domani (ore 18); in seguito al Foce: 6 e 7 dicembre (ore 20.30), l’8 (ore 18). Si riprende al TdR il 13 e 14 (ore 20.30), il 15 (ore18). Info@teatrodelleradici.net; tel. 091 922 09 44.

Manuela Camponovo

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