Dall’America latina all’Oriente con Cristina Castrillo

© Cristina Castrillo

Dal momento che per un po’ di viaggi non ne farò più, ho pensato di trattare l’argomento attraverso lo sguardo di altri viaggiatori, chiedendo loro come vivono questa situazione e quali viaggi sognano, s’immaginano, vorranno fare…

Inizio con Cristina Castrillo, fondatrice a Lugano del Teatro delle Radici, regista, pedagoga, attrice, scrittrice e… viaggiatrice…

 

Il viaggio fa parte della tua poetica teatrale, declinato con diversi significati. Ma se ti dico la parola “viaggio” qual è il primo concetto, pensiero, significato, che ti viene in mente?

© Cristina Castrillo

Mi risulta assai strano pensare o parlare di viaggi in un momento come questo. Si fa difficile ovviare all’impossibilità di spostarsi che ora abbiamo se confrontato con il sentimento di vastità che il viaggiare mi provoca.

Forse ora il viaggio è quello che non si può fare, e la mappa dei miei passi può solo transitare dallo studio alla cucina, dalla poltrona alla finestra, quella che più di altre raccoglie il sole.

Non è un concetto, né un pensiero, né un significato quello che mi viene quando penso alla parola viaggio o al viaggio tout-court. È un fremito, una sensazione prettamente fisica che riesco a percepire con molta chiarezza, anche se potrebbe risultare inspiegabile.

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Forse l’atto creativo può assomigliare a questa impressione, e non è un caso, non solo perché gran parte dei miei viaggi si sono compiuti trainando gli spettacoli, ma perché tante delle immagini raccolte in questi transiti hanno preso forma in spettacoli successivi.

C’è una raccolta spontanea di movimenti, colori, immagini, gesti, oggetti che si aggrappano a te come chiedendoti di prima o poi farli rivivere; come se anche loro fossero parte del tuo mondo. Perciò il viaggio è costante, non si esaurisce quando ritorni a casa e disfi la valigia. Lo sconosciuto fremito iniziale che ha dato una spallata al tuo percorso si risveglierà sempre, soprattutto quando vorrai dare forma a un sentimento, quando vorrai raccontarlo contenendo sprazzi di umanità che, anche non assomigliandoti, sono ormai parte di te.

 

Per un viaggio privato, come ti prepari? So che hai una passione per le mappe, quelle di carta, quelle originali…

© Cristina Castrillo

Adoro la preparazione di un viaggio, e non solo per le mie avventure private. In qualche modo mi riporta alla mia infanzia, alla scoperta di quelle cartine che mi provocavano un fascino inspiegabile, e dove tracciavo circuiti memorabili, ignara della vastità che di fatto mi aspettava.

Ho ancora quella passione per le mappe, sono il mio primo spazio, quello da rigare, sporcare, segnalare, quello su cui fissare il percorso da fare.

Siccome non sono abituata ai viaggi organizzati in massa o a circuiti confezionati, preparo accuratamente ogni dettaglio, leggo molto, scelgo, scopro i migliori mezzi di trasporto, le distanze, quanti giorni è meglio stare in ogni posto, ecc.

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Dedico davvero molto tempo a queste ricerche, e muoio di piacere anticipato. Anche se dopo si dimostra un disastro, quel piacere della preparazione non si sposta di una riga. Solo dopo, e molte volte tramortendo la responsabile, vado all’agenzia di viaggi, sempre la stessa da una vita, ormai sanno che non devono stupirsi troppo. Dopo arrivano le letture parallele sulla cultura, la lingua, il cibo. Cerco sempre di trovare un autore del luogo dove andrò. È quasi una tradizione per me leggere sul posto la letteratura del posto.

La preparazione di un viaggio, sia lungo che corto, sia con gli spettacoli che senza, è un universo a sé. La porta al diverso, allo sconosciuto che man mano si fa meno strano. Lentamente tutto sembra alla mano, ne è parte, nulla mi è lontano anche se, di fatto, lo è.

 

Cos’è che cerchi soprattutto in un paese sconosciuto? La gente, l’arte, il paesaggio, il cibo…?

© Cristina Castrillo

Forse molte delle risposte a questo quesito sono già presenti in precedenza, ma se scavo un po’ di più, credo che uno cerca sempre se stesso, quel che è a confronto con la diversità; quell’apparente diversità che in realtà è anche propria; quella sconosciuta cultura che raccoglie secoli di enigmi e misteri e riti che nel fondo non sono mai distanti; quel cibo che impari a gustare o rifiutare, ma che al contempo si adagia sul tuo palato; quella gente, sì, quella gente con la quale non sempre riesci a comunicare ma che può trasmettere, come chiunque e dovunque, la precarietà e i limiti della nostra condizione.

 

Qual è il luogo che più ti ha colpito in senso positivo, a cui ti senti più affine? E perché? E in senso negativo?

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Magari preferisco usare l’espressione più affine o meno affine, perché guardando il mondo come mi si presenta, il negativo o il positivo si confondono spesso, o perché tanto l’uno come l’altro fanno parte inscindibile della natura umana e sociale di qualunque posto.

Dovrebbe essere quasi ovvio che l’America latina sia la prima affinità; lo è di fatto. Credo di conoscerla tutta, ripetutamente, vastamente, in profondità, ma so anche che è un’affinità travagliata, incandescente, piena di insidie e contraddizioni. Ma quell’enorme continente, del quale credo mi manchi di conoscere ancora qualche paese del centro America e qualche isola dei Caraibi, è nella sua assoluta diversità il mondo nel quale mi riconosco, nel quale posso ubicare le mie rabbie e i miei affetti. Non importa affatto che la mia originale provenienza venga da quelle latitudini; percorrendo l’immensità di quel territorio io sono riuscita a capire per la prima volta forse che “l’appartenenza” mi si apriva ad altri contesti e altre realtà.

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E poi è venuto l’Oriente (dove in modo inconsapevole avevo cerchiato luoghi sulle mappe della mia infanzia) e la botta è stata sorprendente, inaspettata, definitiva.

Niente di meno affine, si potrebbe pensare, ma dal primo di quei percorsi io ho saputo che non avrei smesso di cercare la loro compagnia, ben sapendo che non avevo gli strumenti per condividere un bel niente, ben sapendo di rimanere sempre altrove rispetto a quella realtà, ma nel contempo recuperando ogni volta un sentimento inspiegabile di partecipazione e in qualche modo, ancora una volta di appartenenza. E su questa scia sono passati sotto i miei piedi la Tailandia, la Malesia, Singapore, la Cambogia, il Laos, il Myanmar, la Cina…

Di tutti quanti, e di tanti altri posti posso tracciare quello che rifiuto e quello che accetto, quello che critico e quello che difendo, ma così facendo so che non mi distolgo troppo dal mio agire a casa mia. In questa notevole forma di conoscenza e apertura che il viaggio implica o dovrebbe implicare, non mi sono mai sentita né voluto considerare estranea. Tutti quanti gli “altrove” riflettono sempre la nostra propria realtà.

 

Ci racconti brevemente un tuo viaggio di cui vuoi condividere l’esperienza?

Faccio fatica a scegliere. Mi soffermo allora su uno, non troppo lontano, forse perché racchiude molto di quello che ho già scritto. Sono stata invitata qualche anno fa a fare delle rappresentazioni al festival internazionale di Wuzhen, in Cina. Ecco ancora il fremito comparire. Mai stata in Cina. Paese pensato più di una volta.

© Cristina Castrillo

Per sei mesi ho studiato sulla mia guida fino a comporre l’itinerario che avrei percorso dopo gli impegni di lavoro. Ho scelto di non spaziare solo sui nomi più attraenti e conosciuti, mi sono concentrata su tutto il sud, grande quasi quanto l’Europa. La mia assistente, che sarebbe venuta con me e che di me si fida, mi ha lasciato fare. Neppure la mia referente all’agenzia ha detto nulla quando ho portato minuziosamente elaborato tutto il tragitto che intendevo compiere. Dopo ho saputo che mai nessuno aveva chiesto nulla del genere.

Con la Cina si fanno normalmente i viaggi organizzati, con le guide, da un aeroporto a un altro, seguendo percorsi battuti e conosciuti. Io ho voluto solo il treno e qualche imbarcazione. Pezzo a pezzo abbiamo prenotato i treni e gli alberghi.

© Cristina Castrillo

Durante 45 giorni abbiamo percorso 7’400 chilometri. Astutamente avevo chiesto di avere i nomi degli alberghi anche in cinese, assolutamente necessari se vuoi prendere un taxi che ti ci accompagni. In realtà credo di non essermi resa conto di quello che avevo progettato, né delle ovvie difficoltà, né tantomeno della constatazione che praticamente nessuno, tranne qualche sporadico impiegato di albergo, parlasse altro che cinese. Ma il fulcro di questo viaggio credo sia stato proprio questo. Durante giorni e giorni eravamo attorniati solo ed esclusivamente da loro, ed erano tanti, proprio tanti.

Non mi rimane al primo posto la bellezza di certi paesaggi, l’eleganza di alcuni movimenti, le maschere del teatro tradizionale, la nebbia sui fiumi e i misteriosi picchi caucasici. Neppure la bruttura dei palazzi e degli edifici che crescono come funghi, né una società che diventa difficile sapere dove vada, né l’assenza di libri. A me è rimasto, come una pelle difficile da togliere, questo costante e a volte appiccicoso contatto con una fiumana umana che ci avvolgeva perennemente e il suono incomprensibile e dopo un po’ familiare di una lingua lontanissima. Uniche straniere nei treni, uniche straniere in quasi tutti gli alberghi, uniche anche nei barconi e uniche nei piccoli ristoranti dove ci mettevamo almeno cinquanta minuti per provare a scegliere cosa mangiare, attorniate da tutta la famiglia proprietaria del posto, perché anche per loro la nostra presenza diventava un’avventura.

Il senso del viaggio credo sia stato proprio questo: trovarsi immersi in un mare nel quale apparentemente non ci sono appigli e mai, dico mai, sentire che ci si poteva affogare. Questa impressionante sensazione mi è rimasta per parecchio tempo, ogni tanto si desta, perché so che dovrò tornare. C’è il nord che mi aspetta.

 

Il mare più bello è quello che non attraversammo, parafrasando un celebre verso… Per te, in quale posto non sei ancora andata e che sogni, che immagini?

© Cristina Castrillo

Non credo che questa spinta si possa fermare, anzi. È probabile che l’evidenza dell’età mi fermi certi intenti o mi faccia addolcire i modi di certi percorsi. Tutto quello che ancora non ho visto mi attira, mi chiama, perciò…

Quando hai introiettato in profondità che il senso del viaggio non è esattamente fare delle vacanze, ma inoltrarsi nei bassifondi dei tuoi propri luoghi comuni per provare a capire, a percepire con occhi, che sebbene non saranno mai più del tutto innocenti, uno sguardo che possa andare oltre la precaria e standardizzata conoscenza, allora sì che viaggiare è/diventa un percorso che ti obbliga a riguardarti e non può lasciarti indenne.

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