Dedicato a Gualtiero
Quante volte ho pensato, infine la pace
Quando la pace era molto lontana
Come il naufrago – quando al centro del mare
Pensa di vedere la terra
E si batte stremato – per poi scoprire
Disperato come me
Quante sono le rive immaginarie
E quanti i porti.
Emily Dickinson
Caro Gualtiero,
il 21 agosto avresti compiuto 73 anni (rettifica dovuta, tutti i media te ne hanno aggiunto uno). Per la prima volta, dopo vent’anni, mi trovo a scrivere al tuo nuovo indirizzo in via dell’Altrove.
Hai deciso di traslocare nella stagione del tempo chiaro, divenuto oramai per te tempo scuro, dove nessuno più suonava l’allegria. Dunque hai scelto per te e Gea il tempo dell’Altrove.
Difficile assegnare un nome preciso alla mescolanza di emozioni dovute alla tua partenza. Quando si parte come sei partito tu da così vicinolontano, occorre essere salutati con strumenti di misura altri, la complessità dell’animo umano sconsiglia letture semplici. Inevitabilmente, andando incontro a questo tuo anniversario, la consapevolezza di un’ assenza riaccende strascichi di memorie. Resta la struggente percezione del filo spezzato e, al contempo e come spesso accade, un quasi senso di colpa per essere sopravissuta.
Di fronte alla tua situazione famigliare disperante ho sempre avvertito un forte senso d’impotenza, e di questo mi lamentavo spesso. Un giorno mi scrivesti: “A chi vive la tragedia si può soltanto stare accanto in modo lieve”. Ci ho provato, probabilmente in modo maldestro, ma ci ho provato.
Sono tra le poche persone che hai lasciato avvicinare alla tua sfera strettamente personale. Dunque mentirei affermando che questa partenza, pur lasciandomi il cuore contratto, mi sia giunta del tutto inattesa. Ora con Gea stai oltre la soglia, oscura o luminosa, a seconda del punto da cui la si vuole guardare. Il confine tra due territori contigui resta incerto, forse per rendere indolore il passaggio a chi non ha avuto né tregua né consolazione nell’aldiquà.
Chi ti ha conosciuto davvero sa del tuo perenne stato d’angoscia. Sa delle tue risorse, abituate a spendersi al di là di ogni limite per i tuoi carissimi affetti, bisognosi di tutto. Si tratta di una tragedia personale, certo. Che tuttavia interroga la collettività tutta, a partire dalle politiche sociali che sicuramente hanno mancato del sostegno e dell’assistenza necessari. Solo il disinteresse e la sottovalutazione hanno potuto lasciare che una famiglia si consumasse nel girone infernale di una quotidianità insostenibile. Hai resistito fintanto che la malattia grave ti ha presentato il conto. Specie negli ultimi tempi la resistenza si andava estinguendo sotto il peso troppo gravoso. Lo leggevo nei tuoi scritti, via via più radi, brevi e affaticati, inviati a notte sempre più fonda. Un popolo di ombre e di domande laceranti deve aver catturato mente e cuore, prima della ribellione decisiva, che avrebbe aperto il varco verso un tempo finalmente libero e soltanto tuo/vostro.
Fino a qualche anno fa, una seconda vita vita, quella pubblica, aveva affiancato ridando un po’ di fiato alla prima tanto dolente. L’impegno alla radio e quello dedicato alla scrittura, praticati con grande passione e competenza, ti hanno regalato molte e meritate soddisfazioni. Ho avuto la fortuna di incontrarli entrambi, e non certo in modo approssimato.
Erano parecchie le nostre affinità, era ricca la nostra intesa, per la quale avevi coniato il felice termine di ”frasorellanza”: per noi, figli unici, una dimensione affettiva inedita d’inestimabile valore. Un ponte capace di congiungere spazi simili per collocazione geografica e temporale, e di costruire nel corso degli anni un lungo racconto emozionale. Nel nostro scambio sempre qualcosa dell’infanzia ci sorprendeva. Da uno scenario sfumato salutavano visi e dettagli, nomi e parole. Voci dialettali, soprattutto, suoni della nostra prima lingua materna.
Mi hai dato fiducia, hai voluto che collaborassi alla revisione delle quattro pubblicazioni dedicate al tuo Lessico familiare dei quattro tempi, pubblicazioni che in seguito avrei avuto l’onore di presentare in Ticino e nel Varesotto. Era grande l’entusiasmo che mettevamo anche nella ricerca delle immagini destinate a commentare i testi: questa no, quella forse, questa si, questa va in copertina! E il titolo? Proposte e discussioni, talvolta accese, che ci lasciavano col fiato corto per il troppo aver gareggiato.
Non dubitavamo di esserci incontrati in epoca remota, da bambini, senza riconoscerci. Troppe le analogie nel ricordare la bottega del fornaio, il lavatoio nei pressi del fiume, la giostra di inizio primavera, l’osteria appena oltre la ramina: di pressoché ogni cosa si aveva comune memoria. Segni inequivocabili di somiglianze, che hanno fatto nascere anche in me il desiderio di dare voce alle mie radici. Fosti il primo a credere nella mia scrittura, ben prima che ad essa giungesse qualsivoglia riconoscimento ufficiale.
Ti sono mancati il tempo e l’energia necessari per realizzare il sogno di “quel romanzo”, che avrebbe dovuto dare la sveglia e mettere in fila le migliaia di appunti dormienti in forma di abbozzo. Di certo vi avresti riversato tutto un mondo, salvando il tempo in cui non saresti stato più. Ci siamo visti verso la fine di giugno, una volta riaperta la frontiera. Quell’ora così vicina sembra appartenere ad un mondo lontanissimo. Indossavi la consueta tristezza vestita d’allegria, eterna contraddizione tra sguardo e sorriso. “Ciao, ma sei un fiore!” Non mentivo, i segni della malattia ancora ti avevano risparmiato. Strizzasti gli occhi dietro le lenti e ti mettesti a ridere scuotendo la testa appena “Tutto merito del cortisone!” Non intendevi sottoporti a terapie invalidanti, dovevi aver cura degli altri. In quella stessa occasione mi hai donato una scatola zeppa di libri, scelti per me con cura negli scaffali della libreria domestica. Non è certo un caso se, più tardi, vi avrei rinvenuto anche Una disperata felicità di Monique Saint-Hélier. Poi quel saluto veloce e quell’abbraccio forte, presagi di un futuro fragile e incerto. Tu già sapevi, ed io non sapevo di sapere. Dal paese natale ti teneva lontano una sorta di esilio forzato. Hai deciso per una felice saldatura, per un patto di pace, scegliendo di dormire nel suo camposanto discosto, al limitare del bosco. Tu e Gea, arrivati a quel medesimo punto della sofferenza, ora abitate sotto un cielo dolce, quasi incolore, che in questo tramonto d’agosto si appoggia sul monte e ne ridisegna il profilo. E’ il monte che dalla casa paterna vedevi da bambino, che vedo anch’io dalla mia finestra. Hai detto di no al tempo perso appresso alle cose del mondo e sei pervenuto a quello così a lungo sognato e invocato. Con molto affetto.
Erika Zippilli-Ceppi