Dopo la chiusura del Cortile, Emanuele Santoro racconta tra bilanci e prospettive
Pronto per l’intervista?
“Tenersi pronti è tutto…”
Vedo che non ha perso il senso dell’umorismo…
Non ho perso né quello, né la speranza, né l’autostima. Forse un po’ di forze ultimamente per il lavoro che ho dovuto fare. Mi sono portato avanti per sbaraccare Il Cortile.
Ma le avranno dato dei termini per uscire, rispetto alla disdetta peraltro da lei annunciata in varie occasioni?
La lettera ufficiale di disdetta è arrivata in piena emergenza coronavirus, intorno alla festa del papà. Ma avevo già potuto parlare con l’architetto Valon Beselica, che rappresenta la Lugano Campus SA, società dei nuovi proprietari. Si era un po’ informato, anche lui ci teneva a vedere a cosa stava per togliere vita. Ed è rimasto impressionato, non se lo aspettava, dalle foto non si era reso conto della realtà sulla quale stava per mettere le mani. In mezzo a tutta questa situazione, si sono dimostrate persone ragionevoli, disponibili anche dal punto di vista dei tempi. Il teatro era già chiuso per le note disposizioni e non volevo prolungare una inutile agonia, continuare a pagare l’affitto non avrebbe avuto senso. Anche se avrei potuto ottenere la rottura del contratto anticipata, abbiamo concordato che avrei lasciato libero il locale per fine aprile. Ho comunque apprezzato la loro sensibilità, per nulla scontata.
Quindi ha fatto velocemente il trasloco.
Mi sono trovato nell’emergenza dentro l’emergenza, spostando materiale, smontando, senza avere un posto dove metterlo. Ho fatto appello alla Città, per il momento ai Servizi Urbani. Un’iniziativa che non avevo mai preso prima. Ho creato la mia compagnia e realizzato Il Cortile senza mai chiedere nulla, avevo una mia idea chiara e ho speso tutte le mie energie per attuarla. Ma adesso era urgente trovare una sistemazione al materiale. Ho avuto una risposta rapida per un magazzino, benché provvisorio, fino a fine luglio. Mi auguro però se nel frattempo non si troverà una soluzione definitiva, si possa valutare una proroga. Un teatro non è una scatola di fiammiferi, c’è molto materiale, ingombrante e pesante, e l’idea di dover rispostare tutto a breve… Si tratta di un magazzino bello grande, di cui posso disporre per la metà della superficie. Che poi, a ben guardare… Volendo…
Come, pensa già di poterci fare un teatro sul modello di quanto realizzato per Il Cortile nel 2006?
Appena vedo uno spazio con certe dimensioni e una certa altezza il pensiero parte. Potenzialmente potrebbe diventare un piccolo Cortile. Non molto più piccolo ma più piccolo. Però, immagino, ci sarebbero ostacoli burocratici, di fattibilità, mancherebbe la destinazione, bisognerebbe sottostare a tutta una serie di regole di adattamento e abilitazione, accorgimenti tecnici e legislativi. Mancano oltretutto i fondamentali, i servizi. Si tratterebbe di un investimento di portata non indifferente, ma non impossibile. Certamente più impegnativo di quello fatto sull’attuale (o ex, non so nemmeno più come definirlo…) Cortile. So anche, però, che per tutto quel sedime è prevista una sorta di ristrutturazione, rivalutazione, pare si stia già studiando, progettando. Quindi non sarebbe il caso, in definitiva. Di questo pensiero prendo di buono una cosa: il fatto stesso che mi sia venuto. Sono condannato alla progettualità.
Altrimenti, l’alternativa?
È la domanda che tutti mi fanno. Uno spazio in cui traslocare Il Cortile sarebbe la soluzione migliore, ovviamente. Ma non posso pensare di ricominciare tutto daccapo, da solo. Arrivato a Lugano nel 2004 avevo la precisa intenzione di trovarmi in un luogo in cui poter continuare a proporre i miei corsi per ragazzi e poter fare le prove delle mie produzioni. Non mi è passato nemmeno per la testa di poter pretendere uno spazio dalla Città. Con che diritto? “Io faccio cultura e quindi posso?”. No, mai pensata così. Ho trovato il luogo, ho sottoscritto un contratto d’affitto e sono partito. Mesi di lavoro duro e un cospicuo investimento economico. La creazione dello spazio coincideva, allora, con la produzione di Don Chisciotte, e ancor prima con l’adattamento teatrale del romanzo. A ripensarci… Di giorno lavoravo “in cantiere” al Cortile, il pomeriggio mollavo gli attrezzi e correvo a tenere i corsi per ragazzi (impolverato, sporco e sudato… pazienza), di sera, rinfrescato e rifocillato, mi mettevo a lavorare sul testo fino a notte. Qualche ora di sonno e via, di nuovo al lavoro. Unire cantiere e allestimento fu il passo naturale, ed ecco che Don Chisciotte lo ambientai proprio in un cantiere, con tanto di impalcature. Debuttai al Cortile, primavera 2006, con il pavimento in legno fatto solo a metà e una ventina di sedie raccattate non ricordo dove. Un periodo duro, ma energizzante al tempo stesso. Stava per nascere qualcosa. Alcuni amici mi hanno dato una mano, uno su tutti è Ettore Contestabile, allora da poco pre-pensionato. Ha creduto da subito nella mia idea e non si è risparmiato, sporcandosi le mani (e rompendosi la schiena) con me, e mettendo a disposizione tutti i suoi attrezzi di lavoro. Io non avevo nemmeno un cacciavite, forse, ed è tutto dire. Di sera, sfiniti, ci mettevamo ad osservare il lavoro fatto quel giorno. “Bello, è venuto bene!”. Ricarica per il lavoro del giorno dopo. Grande Ettore. Ora che ricordo, oltre all’infinita riconoscenza, gli devo anche un trapano nuovo. Il resto è storia.
Tornando all’alternativa. Ho inoltrato una richiesta alla Città di Lugano che, immagino, verrà valutata in parallelo da Dicastero cultura e stabili urbani. Come detto, uno spazio cittadino in cui traslocare e pagarci solo le spese vive sarebbe l’ideale. Se nel frattempo, nel rispetto dei tempi tecnici che una simile soluzione comporterebbe, e nella prospettiva di un’effettiva fattibilità, il passaggio che ritengo naturale sarebbe di far assorbire dalla Città le varie proposte del Cortile, quindi produzioni (tra cui la rassegna di recitals che potrebbe riprendere il nome di SOLOinscena) e attività didattica. Come e dove inserire queste proposte sarebbe da valutare insieme. Una possibilità sarebbe di distribuirle. Didattica al Foce, recitals per esempio nello Studio del LAC, che per dimensioni sarebbe ideale, nuova produzione in Luganoinscena. Si vedrà. Qualche contatto, nel frattempo, è già stato preso, ad esempio con il direttore della Divisione Eventi Claudio Chiapparino, che peraltro conosce bene la mia attività da molti anni, e che ha subito dimostrato disponibilità. Lo ringrazio. In ogni caso, si terrà a breve un incontro con i vari direttori e valuteremo insieme come e cosa fare. Confido nei rappresentanti delle varie istituzioni e dicasteri, nella loro disponibilità, sensibilità e apertura, e mi auguro che le loro decisioni possano anche corrispondere alle aspettative di tante e tante persone, gli spettatori del Cortile, che da subito hanno dimostrato grande solidarietà e speranza che si possa trovare una soluzione concreta per la sopravvivenza del Cortile. Sono innumerevoli i messaggi che sto ricevendo ogni giorno, ringrazio tutti. “Perché non fai una raccolta firme? Noi ci siamo”, hanno scritto in tantissimi. Non credo sia necessario. Credo che la situazione verrà valutata con obiettività da chi ha gli strumenti e la possibilità di decidere. Sono convinto che si saprà riconoscere il valore di una realtà che negli anni si è inserita e radicata nel tessuto culturale cittadino, e non solo, grazie ad un percorso appassionato e attento, ma soprattutto che si consideri l’importanza che deve (dovrebbe) avere la pluralità nell’offerta artistica, se così si può dire.
Per lei, quindi, c’è un’urgenza e anche un diritto, visto il suo passato, ad ottenere uno spazio?
Diritto è una parola grossa, impegnativa. Non so se sia mio diritto, non pretendo nulla “di diritto”. Mi auguro però che i quindici anni di esperienza del Cortile costituiscano una credenziale per l’ottenimento di uno spazio, questo sì, non sarei onesto né credibile se non lo riconoscessi.
Ma dato che la storia degli spazi che le compagnie locali chiedono e non ottengono è una polemica che va avanti da decenni, si può essere un po’ pessimisti.
Non ho mai chiesto spazi né fatto polemica su questo, quindi non so. Non avendo messo in conto, alla nascita della mia compagnia, che potesse essere una pretesa da avanzare, sono partito senza chiedere nulla a nessuno. Mi sono creato la mia storia. Non ho mai pensato “Io faccio questo quindi posso pretendere uno spazio dalla città in cui opero”, nemmeno per un attimo. Ero appena arrivato a Lugano, e sentivo, semmai, che era importante fare, prima di tutto, quindi, in questo senso, guadagnare e meritare fiducia semmai, ma senza un preciso né confuso secondo fine (avrei aspettato quindici anni, 70.000.- di investimento iniziale in soli materiali e 300.000.- di affitti pagati?). Guadagnare fiducia, credibilità e interesse prima di tutto dal pubblico, con le produzioni, quindi in veste di regista e attore dei miei spettacoli, poi con la sala teatrale e le sue proposte, ma anche con l’attività didattica rivolta ai ragazzi. Le idee c’erano, lo spazio in cui concretizzarle no, ma non ho aspettato che mi calasse dal cielo o che mi fosse dato da qualcuno, magari a costo zero in quanto diritto, appunto. Ho sottoscritto in prima persona un contratto d’affitto, mi sono rimboccato le maniche, ho investito tempo e denaro e via. Oggi mi presento a chiedere aiuto per la sopravvivenza del Cortile, lo chiedo auspicandomi che la soluzione sia quella dell’usufrutto al netto delle spese vive, potendo garantire, in cambio, delle proposte concrete, un’offerta culturale, la stessa che ha fatto vivere Il Cortile fino ad oggi. Forse, e me lo auguro, l’esperienza fatta e la ricaduta che ha avuto sul territorio, l’indice di gradimento guadagnato tra la gente potrà influenzare la decisione. Staremo a vedere. Quindi, quando mi chiede delle compagnie locali, con tutto il rispetto e l’ammirazione per tutti, devo prendere atto che abbiamo storie abbastanza diverse e che quindi difficilmente paragonabili. E intendo proprio come storia, ciò cui ho accennato poco fa. Indirizzo artistico, temi, stile, scelte e qualità sono un altro discorso, che esula da questo contesto. Ognuno ha la sua storia e il suo linguaggio, ed è bene che sia così. Parlo di una diversità che crea varietà nella proposta, fermento culturale che può solo arricchire una città, quella di Lugano in particolare, che di questo può solo essere orgogliosa. Ricchezza e varietà che vanno a favore degli amanti del teatro, curiosi e sempre alla ricerca di qualcosa di stimolante da vedere e sentire. Una parentesi a proposito di compagnie locali, mi permetta. Ringrazio almeno quelle di Lugano che mi hanno dimostrato solidarietà, e penso al Teatro d’Emergenza di Massimiliano Zampetti, a Femme Théâtrale di Margherita Coldesina, a Michel Poletti del Festival internazionale delle marionette e a Carmelo Rifici, direttore di LIS. Non so se siano tutte ma per me sono già tante. Molte anche le manifestazioni di affetto, solidarietà e incoraggiamento arrivate dalle compagnie “fuoriporta”, parecchie quelle oltre confine, quelle italiane, da nord a sud isole comprese, che in vari contesti (festival o rassegne) si sono esibite al Cortile. Tantissimi gli artisti indipendenti che hanno appreso tramite mailing list o stampa. Ho apprezzato molto, e confesso che mi piace pensare che il nome di questo piccolo teatro possa essere risuonato, anche solo nel racconto fatto a qualcuno, nei paesi delle persone che, in veste di attori, registi, tecnici o musicisti, vi hanno messo piede e lavorato, arrivati da Germania, Francia, Spagna, Inghilterra, Belgio, Danimarca, Norvegia, Russia, Turchia, Bosnia, Serbia, Croazia, Polonia, Africa, India, Argentina, Brasile, Stati Uniti e Canada. Almeno quelli di cui ho ricordo.
Tornando a noi. Se il discorso spazio è al momento, a tutti gli effetti, ancora un’incertezza, devo riconoscere che questa situazione, in generale, mi genera anche eccitazione. Sto per affrontare un cambiamento, una novità nella mia vita. Certamente una svolta importante. E in questa fase, chiamiamola così, confido prima di tutto in me. Ho voglia di fare, esplorare, di portare avanti un discorso che nel tempo ha preso una direzione precisa, la mia ricerca. Questa è la garanzia per la mia sopravvivenza. Mi potrebbero accordare il più bello spazio del mondo, ma se poi non riesco a riempirlo di qualcosa di concreto, quello spazio diventerebbe inutile, smisurato anche se piccolo come un francobollo, e, forse peggio ancora, sarebbe spazio tolto a qualcun altro.
È la sua progettualità.
Progettualità che in questi anni ha preso sempre più corpo. Il filone dei recital con musica dal vivo composti su temi e autori che prediligo e che hanno variato e alimentato le mie proposte, ad esempio. Così come la forma del teatro di narrazione, basato essenzialmente sulla parola e sui suoi significati, più che sui complementi quali luci, scenografia e colonne sonore, che peraltro sono linguaggi che amo utilizzare e che continuo ad esplorare nelle mie produzioni principali. Raccontare storie, dunque. Storie che abbiano la capacità di sollecitare il pensiero, se non proprio scuotere la coscienza, in chi le ascolta, che arrivino “dritte”, attingendo ad autori che più di altri hanno saputo ricercare, individuare, analizzare e interpretare i meccanismi di quella meravigliosa macchina che è l’uomo, dotata di straordinaria energia, forza, intelligenza, sensibilità, curiosità, creatività; insomma, dotata di grandi risorse e potenzialità ma anche portatrice di grandi debolezze, insicurezze e fragilità, capace di scoperte e invenzioni straordinarie, gesti e iniziative incredibili, ma allo stesso tempo capace di produrre tanto male, ingiustizie e assurdità. Del resto, questa ricerca è sempre stata all’origine delle mie scelte, dei testi che ho deciso di mettere in scena. Capire chi siamo e a che punto ci troviamo. Un indirizzo preso in partenza e perseguito quasi come necessità. Un percorso che, come detto, ha l’ambizione di offrire agli spettatori degli spunti di riflessione su di noi, sulla nostra natura, ancor prima che su ciò che ci circonda, e che comunque è un nostro prodotto esclusivo.
Quanto a progettualità, nel concreto, quindi a breve o medio termine (come decideranno le autorità), ho da concludere la mini tournée di Uno, nessuno e centomila di Pirandello, che forse è stato, al suo debutto ad inizio marzo, uno degli ultimissimi spettacoli presentati prima della chiusura dei teatri imposta dalle direttive federali e cantonali. Oltre a questo, ci sono i due recital ancora in programma al Cortile e ovviamente annullati, e mi riferisco a quelli su Amleto e su Medea. Il Cortile, come luogo fisico, ormai è chiuso, aspetta solo di essere seppellito da un nuovo palazzo, ma le idee e i progetti possono e devono sopravvivere alle ruspe. Quindi, alla luce degli sviluppi cui porteranno i prossimi incontri con gli addetti ai lavori, vedremo dove e quando recuperare queste date, tanto per iniziare. I progetti per la nuova stagione sono ancora sul banco di lavoro, nella mia officina.
Per il resto come vede questa situazione di crisi generale, che è anche crisi del teatro?
Finché non arriverà un vaccino resteremo in stato di allerta, penso questo. La nostra vita procederà in maniera diversa. Quanto diversa non lo so. È chiaro che, e non è retorica, molto dipenderà da noi. Gli sforzi del corpo scienza, che dai quattro angoli della terra convergono verso lo stesso e unico obiettivo, matureranno presto i frutti che tutti aspettiamo, ne sono convinto. Nel frattempo, portiamo pazienza e stiamo cauti e attenti. Al debutto di Uno, nessuno e centomila al Foce, ad inizio emergenza, le poltroncine erano distanziate, una sì una no, quindi capienza ridotta della metà, c’era un nastro divisorio rosso per separare la biglietteria, tenere a distanza di sicurezza spettatori e addetti alle casse. Tutto strano, ovviamente, immagini da elaborare per chi, come me, frequenta quel teatro da quasi trent’anni e ne ha un’immagine ormai scolpita nella mente, compresa quella del prima della ristrutturazione. Lo spettacolo, dicevo, iniziava con me sdraiato sulle poltroncine di prima fila. In una delle tre sere ho sentito tossire una signora, una tosse sì profonda, ma tutto sommato come tante altre, sentite per decine e decine di volte tra il pubblico durante i miei spettacoli, ma che in quell’occasione, devo confessare, mi ha procurato qualcosa di simile ad un brivido, anche solo per un brevissimo istante. Ho avvertito, confusa con un accenno d’ansia, una strana, perversa, forma di eccitazione. Mi rendevo conto che stavo, e ancora stiamo, vivendo una situazione e un periodo storico che difficilmente dimenticheremo, e che mi auguro possa corrispondere anche ad una svolta. Personalmente, ormai da tempo, da qualche anno, vivevo male un po’ tutto, dai rapporti interpersonali alla società in generale. Il mondo. Mi sentivo a disagio, vivevo con un pessimismo marcato, come se ormai si fosse arrivati ad una deriva generale, un punto di non ritorno, all’irreversibilità. Ma sì, che vada tutto a rotoli, prima o poi qualcosa succederà. Ma, in particolare, pensavo al tema malattia del pianeta, surriscaldamento, inquinamento, spettro della scarsità di acqua, le nostre polveri fini trovate al circolo polare artico. Pensavo alla scarsa attenzione che fino a quel momento, e forse ancora oggi (non basta mai) ho rivolto a questo tema, a questa emergenza, anche attraverso i miei comportamenti sbagliati. Un senso di angoscia che più volte mi ha attanagliato, e che mi indotto addirittura a riflette sul mio ruolo di padre (ho due meravigliosi bambini, Francesco e Tommaso, simpaticissimi). Non tanto sul come faccio il papà, ma proprio sul perché sono papà. Una scelta e una decisione importanti, una responsabilità enorme già in normali “Tempi di danno e di vergogna”, per dirla con Laforgue, figuriamoci oggi. Sentire che tra dieci anni la temperatura media si alzerà di tot gradi, che avremo estati da oltre cinquanta gradi… Dove scappiamo? Ma soprattutto, come lo spiego? E questa è solo una delle questioni. “Sarà difficile chiederti scusa per un mondo che è quel che è”, dice il cantautore, per meravigliosa voce femminile. L’eredità che consegnerò ai miei figli mi fa già rimbalzare pesantemente addosso le parole di Amleto, ancora lui, che forse loro pronunceranno a loro modo (spero non meno raffinato), ancor prima di averle lette “Ah, tempi scardinati! Dannata beffa esser nato per doverli rimettere in sesto”. Un periodo dunque, quest’ultimo, che sì, mi ha avvolto, vestito di autentico pessimismo. Poi arriva la pandemia, con tutte le sensazioni, ansie, paure e consapevolezze che l’hanno accompagnata. Arresto, sospensione. E penso alla sospensione dell’anima più che a quella delle attività. Percezioni alterate, nuove, sconosciute. Un monito. “IL” monito, forse l’ultimo, chissà. Ed ecco la voglia e necessità di reagire. La pandemia come detonatore. È, triste a dirsi, quello che serviva per prendere atto di una serie di cose. Prima non riuscivo a sentire, o non volevo sentire, ciò che potevo pur vedere. Oggi riesco e voglio sentire ciò che è impossibile vedere, non ad occhio nudo, non senza un potente microscopio. La voglia di reagire, dicevo, e l’eccitazione nel credere che c’è ancora una possibilità, che qualcosa si può ancora fare, che una svolta è possibile. Addirittura, e lo dico nel profondo rispetto di chi ha avuto la sfortunata sorte di perdere un proprio caro e di chi ha sofferto nell’affrontare ricovero e dolore, mi pare che superare la pandemia possa essere, rispetto a tutto il resto, il minore dei nostri mali, e non è un pensiero spericolato, folle, incosciente o provocatorio. Superata questa, ad aspettarci c’è altro, ciò che abbiamo lasciato in sospeso, trascurato o affrontato con poca determinazione. Se non altro non lo abbiamo ancora fatto davvero tutti insieme. Capiremo meglio, apprezzeremo e finalmente riconosceremo il giusto valore e merito a chi da tempo si batte per sistemare le cose, e forse ci accoderemo e parteciperemo attivamente alla stessa causa, che ci riguarda più di quanto fino ad oggi non abbiamo creduto. Quale causa? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Sto facendo indirettamente i conti con la mia coscienza. Oggi siamo tutti allo stesso punto, allo stesso blocchetto di (ri)partenza, condividiamo le stesse sensazioni e nutriamo le stesse speranze. Oggi il mondo ospita una sola persona e quella persona siamo sette miliardi. Mi sembra di vedere e sentire il mondo che sussurra a questa persona “Ti do ancora una possibilità. Vedi tu”. Spero davvero che questa persona, che ha occasione e potere di cambiare le cose, sappia aprire gli occhi, scoperchiare il cervello, rimodulare la propria coscienza e fare le scelte giuste. Detto questo, è anche crisi del teatro, come dice lei, ed è vero. Ma necessariamente, come per tutto e tutti. Non so quando e come si ripartirà, ma si dovrà pur ripartire. In Italia è ripartita l’industria cinematografica. Più facile e frequente che, tra personaggi, ci si baci su un set che su un palcoscenico, per dirne una. Com’è ripartito il cinema così ripartirà il teatro, con le dovute precauzioni. Sul set non ci sono gli spettatori, in teatro sì, con tutto ciò che questo comporta. Vero, ma si può combinare comunque. Forse non con le produzioni con dieci attori in scena, forse non a sala piena. Una sedia sì e una no, ma anche una sì e tre no ogni due file, pochi alla volta, qualche replica in più con, se necessario, una limata agli ingaggi. Un sistema si troverà e la ripartenza del teatro farà bene a tutti, soprattutto se sarà per tutti, cioè che tutti se lo possano permettere, intendo economicamente. La cultura deve essere alla portata di tutti, altrimenti non è cultura, proprio perché crea, indirettamente, distinzioni e divisioni. impensabile. La cultura è prima di tutto conoscenza, e la conoscenza è, questo sì, un diritto di tutti. Noi faremo tutto il possibile per proporci al più presto in carne ed ossa di fronte agli spettatori. Personalmente, anche se orfano di uno spazio e momentaneamente in mezzo alla strada, per così dire, mi adopererò in questo senso. Se da una parte il rumore della serratura del Cortile che chiude la porta per l’ultima volta mi parla di tutte le cose che ci ho fatto, delle persone con cui ho lavorato e di quelle che ho visto lavorare, dei più di quaranta spettacoli con cui ho debuttato, delle migliaia di persone che si sono sedute in platea e delle tante con cui ho scambiato due chiacchiere a fine spettacolo davanti ad un bicchiere di vino nel foyer, delle centinaia di bambini e ragazzi cui ho cercato di trasmettere le basi ma soprattutto la passione per il teatro, dall’altra mi dice che stare a crogiolarsi nei ricordi è da romantici fannulloni, e mi urla di darmi una mossa e rivolgere lo sguardo in avanti. È quello che farò, anche nel rispetto di chi si aspetta ancora qualcosa da me. Ora s’è fatta notte fonda, anche Marzullo è già andato a letto. Grazie dell’attenzione che mi ha rivolto. Venga sempre a recensire i miei spettacoli, quand’anche dovessi farli in un fienile in cima ad una valle. Ci tengo. Lo sa.
Manuela Camponovo