Festival d’Avignone – Architettare un grande debutto

Festival d'Avignone 2019 - Architecture

Festival d’Avignone 2019 – Architecture (Foto: Christophe Raynaud de Lage)

Sarà per lasciarne intuire la grandezza, la portata, il prestigio? Sarà. Sta di fatto che quest’anno, per inaugurare la 73ma edizione del Festival teatrale più importante d’Europa si è ricorsi all’architettura: Architecture, infatti, è il titolo “preso a prestito” dal prolifico autore e regista francese Pascal Rambert per la sua nuova creazione, che disegna un avvenire possibile affondando le mani della storia. Insieme a Laurent Gaudé, Alexandra Badea e Clément Bondu, Rambert rappresenta il fiore all’occhiello del festival di quest’anno, inauguratosi ieri nella favolosa Cour d’honneur del Palais des papes ad Avignone. Tutto esaurito, clima febbrile, eroica attenzione del pubblico protrattasi per le oltre tre ore di spettacolo. Il titolo contiene in sé l’idea alla base dello spettacolo, un’idea germogliata nell’autore nel 2014, quando ha radunato alcuni fra i suoi più fedeli attori ed ha proposto loro questo lavoro collettivo. Perché la scrittura di Rambert è una scrittura esclusiva: le sue parole si aggrappano agli attori per cui sono state da subito messe in fila. Attori di grande calibro, attori della Comedie française, attori registi, attori drammaturghi, attori pedagoghi, e muse. Ma è attorno alla straordinaria verve di Jacques Weber, attore di consolidata fama in Francia, che Pascal Rambert ha letteralmente costruito la storia. Una storia che restituisce la Storia dei primi anni del secolo scorso, quando l’Europa sanguinava tra un conflitto mondiale e il successivo. Trenta foschi anni in cui il nostro continente mostra il suo splendore, ma anche i denti. Di che parla esattamente, però, Architecture? Perché non è uno spettacolo storico, è, piuttosto, una storia nella Storia. Una storia brutale, peraltro, una storia famigliare che è un naufragio, un viaggio negli abissi, uno schianto: del sistema individuale e di quello corale, collettivo. Siamo all’affacciarsi della modernità in questa pièce di Rambert, che narra della prima guerra mondiale e si ferma sulle porte dell’Anschluss. Sono tre decenni. La micro storia trova il suo fulcro nella figura di un padre sadico, un padre colpevole di aver lasciato morire la moglie (e madre di innumerevoli figli, tutti in scena) e di averla sostituita con una coetanea dei suoi figli. Ma la prole appare salda, e di magnifica statura intellettuale (peccato che dentro perisca, e mica solo per la temutissima omosessualità del più geniale di loro): tutti filosofi, scienziati e scrittori questi figli, e attrici, e pittrici, compositori, architetti. Tutti votati al pensiero, chini sulla bellezza al fine di studiarla e perpetrarla. Ma tutti loro cadranno come le tessere di un domino, moriranno in modo violento: chi si getterà dalla finestra, chi in guerra, chi pugnalato, chi matto, chi ucciso dall’orco del padre. L’inevitabilità dell’orrore ci racconta Pascal Rambert quando fa esplodere i personaggi in monologhi intimi e strazianti, profondamente privati. Tutti loro – e verso ognuno lo spettatore sensibile orienterà la sua empatia – sono solo figli del loro tempo, più che dei loro genitori (per quanto ingombranti nei loro ego, o ingiustificabili nelle loro facili rese). Ciò che un po’ commuove e un po’ sgomenta è il tentativo incessante – attorno al tavolo, mentre viene servita la cena, durante l’accoppiamento, nel bel mezzo di un aborto autoindotto, ascoltando le notizie dal fronte, tentando, pure, la carta del nomadismo alla ricerca di lidi più sereni – il tentativo di anteporre, a qualsiasi costo, la lotta in nome dell’intelligenza, del sapere, della giustizia e dell’ordine del giorno. La scena, bianco candida e ampissima, bislunga, ideata dallo stesso regista e autore, offre allo spettatore il lusso dell’assenza di confini. La camera da letto è lì, davanti al salotto, e dietro ci sono le postazioni radio per connettersi col presunto mondo; due metri più in là c’è l’angolo in cui gli attori (ma soprattutto i personaggi) si ricaricano fondendosi in un rito circolare accompagnato dal violino di un’attrice, “la mamma”, un momento – seppur visibile – silenziosamente inaccessibile al pubblico, e quindi caricato di significati ben più intriganti di cui potrà infine godere quest’ultimo, me compresa. Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Anna Brochet, Marie-Sophie Ferdane, Arthur Nauzyciel, Stanislas Nordey, Denis Podalydès/Pascal Rénéric, Laurent Poitrenaux e, naturalmente, Jacques Weber, sono loro gli interpreti di questa grande messa in scena, di questo ritratto vagamente cechoviano che mette a dura prova l’ottimismo. Perché se nemmeno i più virtuosi e puri, i rappresentanti irreprensibili delle nuove generazioni, quelli sopravvissuti anche ai padri folli e alle madri anaffettive o conniventi, se nemmeno loro hanno potuto qualcosa di fronte all’orrore della violenza, della prevaricazione gratuita e sorda, allora chi mai potrà riuscirci? Oggi. Perché oggi il sistema mondo appare esattamente così come era al principio del secolo: come stretto dentro a una tenaglia, tra guerre psicologiche di entità universali (e con un tasso di contagio spaventoso: “quindi chiudiamoci in casa e non ne usciamo mai più”, cippiscono sempre più adolescenti mutilati nell’anima) e guerre concrete, di acqua e di sangue, di pesci coi morti, guerre che non farebbero invidia a quelle (lungi dall’essere dimenticate o comprese o digerite o sublimate) che hanno lacerato come un cristiano fatto di carne e ossa e sangue questo nostro mondo.

Margherita Coldesina

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