FIT – “C’est la Vie”: il linguaggio della morte, della vita e del teatro

“C’est la vie”, diretto da Mohamed El Khatib, con Fanny Catel e Daniel Kenigsberg, al National Dramatic Centre di Orléans, 17 marzo 2017.

di Silvia Villa

Fino a che punto ci si può fidare del teatro? Fino a che punto ci si può fidare del linguaggio?

In entrambi i casi, le convenzioni, le regole, gli accordi taciti si rivelano fragili, contestuali, aperti su mille mancanze. Rimane sempre un margine, un vuoto comunicativo, in cui il messaggio si perde. Deridda la chiamava différance, quello spazio tra ciò che è, e quello che se ne riesce a dire.

Sembra esserci un movimento simile nel teatro di Mohamed El Khatib, un riconoscimento della necessità di colmare quanti spazi comunicativi possibili attraverso la decostruzione delle convenzioni, teatrali e linguistiche, e la loro re-articolazione in atti comunicativi che si completano a vicenda. Un esercizio post-modernista, post-litteram, post-mortem. La mancanza, il lutto che pervade tutto, il corpo, la vita, la parola, la recitazione, è in fondo la tragica colonna sonora concettuale che accompagna C’est la vie, recente proposta di Mohamed EL Khatib presentata ieri sera al LAC davanti a un pubblico emozionato e concentratissimo.  Il drammaturgo franco-marocchino riunisce Daniel Kenisgsberg e Fanny Catel, che in comune hanno la professione di attori, e la perdita prematura di un figlio. Lui, di un ragazzo di 25 anni. Lei, di una bambina di 5. L’uno, per suicidio. L’altra, per malattia. Entrambi sono orfani al contrario, confrontati con la perdita dei loro bambini, e dalla mancanza di una parola che la definisca.  Per raccontare la loro storia, Mohamed El Khatib rompe spazi e ritmi teatrali, e si affida al video e alla parola scritta per colmare i vuoti lasciati da queste perdite.  I due attori, presenti in scena, osservano il pubblico che li osserva negli schermi sopra di loro mentre raccontano le parti più difficili della loro perdita. La morte, la sepoltura, il prima, il dopo. Un manuale di utilizzo, invece, riempie il vuoto degli spettatori con informazioni sui due, sulla storia dello spettacolo, sulla morte filiale nella mitologia. E poi, in scena, Daniel e Fanny sono semplicemente Daniel e Fanny. La grande personalità di lui, che si esprime in barzellette ebraiche, rimandi alla tradizione, alla vita familiare, e la grande forza di lei, con un sorriso rassegnato e modesto che l’accompagna per tutto lo spettacolo.

Il resto lo fa lo smarrimento del pubblico, che riceve tutto questo dalle panche (forse volutamente scomodissime?), disposte intorno alla scena in modo molto intimo. A spettacolo finito, una volta finiti i loro racconti, I due attori escono dalla scena senza raccogliere applausi, lasciando anch’essi un vuoto nelle aspettative del pubblico, che sembra davvero smarrito nel momento in cui gli si sconvolge il ruolo all’ultimo momento. Non siamo forse tutti qui per applaudire? Non sono forse i figli creati per morire prima dei genitori?

Eppure, a volte no.

C’est la vie.

 

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