Gardi Hutter, lunga vita al clown

Sala affollata al LAC, ieri sera, per Gardi Hutter e a ognuno il suo pubblico: pochi giovani ma evidentemente molte persone che seguono l’artista da decenni, la conoscono, l’amano e simpatizzano sempre per lei. Prolungati, entusiastici anche gli applausi finali (ma ce ne sono stati diversi, come molte risate, a scena aperta). Anche se l’argomento non era dei più allegri. Il binomio clown e morte esiste da sempre, poiché il ridere è l’altro volto del pianto e viceversa. E l’artista ne fa riferimento, così come all’aldilà, quasi sempre nelle sue creazioni, morire, resuscitare, sparire e rinascere. Cadere e subito rialzarsi.

Ma questo debutto nella Svizzera italiana della nuova produzione (LuganoInScena, Theater am Hechtplatz Zürich, Theaterhaus Stuttgart), diretta dal fedele Michael Vogel, ha proprio la morte come tema centrale. Gaia Gaudi, godimento e assunzione al cielo, come precipitazione all’inferno, in un universo dove hanno il loro ruolo i quattro elementi e non si abbandona mai troppo la concretezza terrestre. Una creazione familiare, perché in scena ci sono i due figli della Hutter, Neda e Juri Cainero, più la moglie di quest’ultimo, Beatriz Navarro, tutti attivi nel campo dell’arte, i primi due, cantanti e musicisti, la nuora, coreografa e ballerina, e molti sono gli spunti autobiografici e domestici, che scopriamo attraverso una divertente lettura di carriera ed esistenza privata. Naturalmente il tutto narrato alla maniera clownesca ben nota, suoni vocali onomatopeici, buffa mimica, gestualità provocatoria mai volgare, che richiamano le risate fin dalle prime mosse, lei con la solita parrucca spettinata, la goffaggine stratificata degli abiti da figlia del popolo, l’immancabile naso. È clown al femminile.

E Gardi si duplica, successivamente la vedremo alle prese con altre tre, quattro se stesse, la famiglia (la realizzazione è firmata da otto mani) s’identifica, partecipa, suona, danza, canta. I rinvii visivi e di vari personaggi sono un rimando continuo alle antiche tradizioni e culti dei morti, primitivi, tribali, latini, egiziani… Evocati anche dalle percussioni, dalle vocalizzazioni, dalle musiche.

E già all’inizio ne vediamo due, una attiva e la doppia, una sorta di fantoccio immobile che lei tenta in tutti i modi di svegliare, con la complicità degli spettatori, non si rassegna all’idea di essere in realtà morta, invisibile per la figlia che le porta dei fiori. Inizia così il viaggio, a cui lei sempre si ribella perché testardamente non vuole arrendersi, nel mondo ultraterreno, accompagnata da rituali e traghettatori mitici con testa di uccello. Finisce nella bara, esce di nuovo, non vuol saperne di portare la valigia, di aprirla e immergersi nel contenuto di sfavillante luminosità. Arriva all’apoteosi, nota la megalomania di sogni clowneschi, ad essere vestita e identificata come una regale divinità, a cui anche gli spettatori, invitati ad alzarsi in piedi, devono rendere omaggio, nella fantasia dell’inconoscibile. Ma da lei, da sotto il manto dorato, spuntano proprio i giovani come emblema delle nuove generazioni, che si succedono, si avvicendano, nella naturalità della vicenda umana. Si deve morire per lasciare eredi che prendano il nostro posto, filosofeggia la rappresentazione.

In questo lungo viaggio ultraterreno, la seconda parte ci trasporta in una sorta d’inferi, di mondo di ieri, all’incontro con la Grande Madre, le cui prosperose e nude forme, simbolo di fertilità, la protagonista, in un attacco di esilarante pudicizia, tenta di nascondere utilizzando il suo grembiule…  Anche questo simulacro si muove, pupazzo vivo e vitale, ma ricorda ad Hanna che anche lei, nel suo piccolo immaginifico, è madre, alle prese con le incombenze quotidiane che certamente mancheranno ai figli, si scherza su una fatalità. Eccola dunque imbastire una rumorosa tavola, sulla stessa bara e a chiamare a raccolta per mangiare, finendo con una composizione percussiva di piatti e accessori vari. La madre cerca i figli e i figli la invocano, ma c’è anche l’artista e quindi si assiste, con un alter ego, ad uno squarcio del suo più famoso spettacolo il cavallo di battaglia che l’ha resa famosa, la lavandaia Giovanna d’ArpPo, alle prese con mastello e il filo del bucato…! Un percorso d’arte e di vita (accenna come tormentone al Non, je ne regrette rien” della Piaf) che s’intreccia con la saggia e meno malinconica idea della morte, perché alla fine, dopo tante battaglie sul palcoscenico, la nostra protagonista si rassegna e, pur con qualche renitenza ancora, entra, precipita, nella luce o nel buio, quel che sarà, mentre arriva in scena una carrozzella, morte-rinascita dunque. Ancora un ultimo sberleffo quando riappare nella cornice a cui la figlia depone un lumino. Il clown è morto, lunga vita al clown che sa ironizzare di se stesso ed esorcizzare il Grande Tema, pauroso, quanto ineluttabile per tutti. Si replica oggi alle 16 al LAC e poi il 19 e 20 dicembre al Teatro Sociale di Bellinzona (ore 20.45).

di Manuela Camponovo

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