Goffredo Parise, ritorno alle origini

Un giorno, sul finire degli anni Sessanta, Parise vede nella piazza sotto casa un bambino con in mano un sillabario. Gli si avvicina e legge: «L’erba è verde». Sono tempi politicizzati, in cui si fa spesso ricorso a parole «difficili», e quella pagina limpida e colorata acquista il significato di un monito, un richiamo all’essenzialità della vita e della poesia: «Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie». Nasce così l’idea di una serie di brevi racconti (o romanzi in miniatura o poesie in prosa, difficile dirlo), dedicati a sentimenti umani essenziali, che disposti in ordine alfabetico compongano una sorta di dizionario. I primi, da Amore a Famiglia, escono sul «Corriere della Sera» fra il 1971 e il 1972, e a tutti è subito chiaro che mai la scrittura di Parise è stata così felice, quasi fosse scaturita da quella condizione di armonia, di energia che lo scrittore aveva sempre cercato: «una specie di limbo, di lieve e soffusa esaltazione, in cui nel suo complesso ti piace la vita e ne hai al tempo stesso nostalgia». Una seconda serie, da Felicità a Solitudine, esce fra il 1973 e il 1980, e nel 1984 i due Sillabari vengono riuniti in un unico volume. Rileggendoli a distanza di vent’anni, scopriamo, non senza stupore, che il tempo nulla ha tolto a quei racconti tenacemente controcorrente, frutto di una fulminante concentrazione, o meglio riduzione agli elementi primi, della realtà: ci appaiono nitidi, assoluti, chiusi in una nervosa, brusca perfezione come figure scontornate, eppure capaci di evocare, al pari di un sillabario, un intero mondo perduto. Come ha scritto Cesare Garboli, nei Sillabari Parise «distilla la pietra filosofale del raccontare. Ma non racconta, fa qualcosa di più. Invoglia a pensare che il mondo sia raccontabile, e che la sua raccontabilità sia una meraviglia da scrutare attraverso un foro minuscolo».

Ieri sera, 20 marzo, ad approfondire la poetica di Parise all’USI, il prof. Silvio Perella, per la serie “Archivi del Novecento”, iniziativa della RSI in collaborazione con l’Istituto di Studi italiani della stessa università. «Effettivamente – commenta il prof. Perella – una delle cose che ci affascinano dei suoi Sillabari è che niente è dato per scontato, tutto scompare così come è apparso. Le cose esistono dentro la fugacità del tempo. E tu devi saperle cogliere. In un articolo apparso sul Corriere della Sera scriveva che il “Il rimedio è la povertà”. Fece scandalo, eppure qui stava la sua poetica».

«Egli scrive all’indomani del ‘68, dopo momenti complessi, con i quali Parise non era in sintonia. Nel momento in cui la letteratura si rende complessa, avverte la necessità di fare una semplificazione fulminante: mettere molto mondo in poco spazio. La brevità ha dentro una densità. Questo permette di entrare in relazione con la forma della poesia».

Ma qual è il vero segreto del suo programma stilistico? «Ce lo rivela Pasolini, che a distanza di pochi mesi si ritrova a recensire Le città invisibili di Calvino e il primo Sillabario di Parise. Sono dei libri che hanno abbandonato il romanzesco e tentano di scrivere delle “trame senza le trame”. Piuttosto, Pasolini intuisce che dentro i Sillabari c’è la dimensione della poesia. Una dimensione che scaturisce da una precisa presa di posizione. Parise scrive grazie al fatto di essere entrato in armonia con il suo imperfetto, in molteplici sensi: all’imperfetto sono i tempi verbali dei Sillabari; ma, anzitutto, Parise era entrato in armonia con il suo “imperfetto vitale”. Aveva accettato la sua imperfezione, anche la semplice inesatta pressione del suo sangue, come diceva lui. Portava dentro di sé qualcosa che non è mai esatto. Imperfezione è dunque, per riprendere le sue parole, “ciò che dà la sensazione di qualcosa che c’è ma è destinato a scomparire. Il senso delle cose che passano e non si ripetono”».

In lui anche la consapevolezza di essere l’ultimo di una generazione. “Sono come quei pesci destinati all’asfissia”, dirà. “Parise sa di appartenere a una vecchia genia, ma pur sapendo questo fa di tutto per trasfondersi nella nuova specie. Per questo deve inventarsi qualcosa di fulminante, che permetta che chi non ti vuole sentire intercetti anche per un secondo la tua voce. Ricerca una miniaturizzazione istantanea. Siamo in un mondo in cui è difficile avere una percezione primaria delle cose, dei sentimenti che ci toccano. Ma è quello che fa la differenza. Toccare il cuore altrui in un breve istante. Solo i sentimenti restano».

E la casa di Salgareda, in cui si svolgono le interviste, che significato ha? «Come dice Parise stesso, la casa gli trasmette un senso di essenzialità, che gli ricorda la precarietà della vita. La modernità vuole che il tempo sia una progressività lineare. Ma il tempo non è solo questo, soprattutto per Parise. Si conosce solo se si ritorna, in particolare se si ritorna a quei luoghi prossimi all’origine. Il ritorno può anche essere senza respiro, come nel caso di Primo Levi che conclude la sua vita lì dove tutto era iniziato, per altro con un romanzo, “I sommersi e i salvati” che riprende il titolo di un capitolo di uno dei suoi primi scritti. Anche il ritorno di Parise è un ritorno divagante. I Sillabari sono questo, una collezione di ritorni alla percezione dei sentimenti, dove però si sa che c’è qualcosa in pericolo, che si deve salvare».

Dunque, quello di Parise, è il ritorno ad un «percezione primaria delle cose, alla necessità della povertà, dell’essenzialità».

Laura Quadri
 

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