I Promessi Sposi e il “sentimento del contrario”

Una lezione fatta di riflessioni ma anche di provocazioni. Questa l’ultima lettura manzoniana, promossa dall’Istituto di Studi Italiani dell’USI, tenuta dal prof. Corrado Bologna. Come intravvedeva Leonardo Sciascia, infatti, “i Promessi Sposi sono opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società e delle sue componenti più significative. Un libro, un’opera che contiene tutta l’Italia”. Una società che si divide tra uomini dalla verve di fra Cristoforo o dalla tragicità di don Abbondio, al centro dell’ultima lezione. Partiamo da una considerazione: nel 1841, l’anno dopo la pubblicazione dei primi fogli dei Promessi Sposi, gli stessi tipografi stampano il Don Chisciotte. Coincidenza? Forse, ma non troppo. Don Chisciotte emerge come una presenza silente ma costante in ogni pagina del romanzo manzoniano. Emerge nell’orrore spontaneo di fra Cristoforo – o meglio, prima della conversione, Lodovico – alle angherie e ai sopprusi (quindi in un’indole orientata all’ideale) e poi nel dramma di don Abbondio. Sì, perché dietro un personaggio apparentemente carico di comicità – o, meglio, di umorismo – emerge una vena, come ha dimostrato il professore, di tragicità, ed è quella contenuta nel cosiddetto “sentimento del contrario”, di pirandelliana memoria. Don Abbondio incarna cioè lo scarto “tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è”, dietro il quale si intravvede il dibattito su Shakespeare filtrato dal romanticismo tedesco, per il quale una letteratura moderna non può essere né comica né tragica, ma deve mescolare questi due elementi. Nella mente, naturalmente, ritornano personaggi come il Leporello del “Don Giovanni”, che vivono delle medesime contraddizioni: di loro si potrà anche ridere per quasi tutta l’opera, ma alla fine riveleranno la loro tragica natura. Medesimo camuffamento si ritrova nei “Promessi Sposi” e il romanzo, allora, si rivela davvero come quel “dispositivo culturale inventato dall’Occidente per costituire una potenzialità e un’idealità intesa utopicamente, in cui si rovescia il modo di essere delle cose”. Una tensione anima dunque il romanzo, lo attraversa come un fiume carsico e finisce per produrre un effetto specifico: la sopravvivenza nella storia – eterna, indimenticabile – dei suoi personaggi, prima ancora che quella del loro autore. “Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio?”, si chiederà emblematicamente Pirandello. “Eppure vivono eterni, perchè — vivi germi — ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire: far vivere per l’eternità!”.

Laura Quadri

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