Il binario morto di Andreas Meyer

Andreas Meyer, CEO delle FFS

Andreas Meyer, CEO uscente delle Ferrovie federali svizzere FFS. (Foto: FFS)

In queste settimane è avvenuto, in un tempo brevissimo, il più grande cambiamento d’orario ferroviario della storia svizzera. Ne avrebbe però fatto volentieri a meno, Andreas Meyer, di chiudere in questo modo la sua esperienza lavorativa dopo tredici anni al vertice delle FFS. Una carriera iniziata nel peggiore dei modi, con lo sciopero alle Officine di Bellinzona e la resa di fronte ad una popolazione ticinese solidale con i lavoratori che rischiavano il posto di lavoro per un disegno strategico che non teneva conto né dell’esperienza, né delle potenzialità di questa struttura ma neppure delle ricadute sociali in una regione periferica come la Svizzera italiana a lui completamente sconosciuta.

L’esperienza “Giù le mani dalle Officine” ha costretto Meyer ad imparare la lingua italiana ma non è servita molto a migliorare il suo rapporto col Ticino o la sua visione delle Ferrovie federali. Dovendo tracciare un bilancio, c’è sicuramente da mettere in conto l’inaugurazione della galleria di base di AlpTransit (pensata, progettata e finanziata molto prima del suo arrivo) ma vanno considerate anche una lunga serie di altre scelte che hanno sicuramente peggiorato il servizio e scontentato i sempre più numerosi passeggeri.

Potremmo spiegare perché con parole nostre, ma sono le stesse FFS ad aver elencato pochi mesi fa un impietoso cahiers de doléance: “Le FFS hanno commesso errori nella pianificazione della formazione e dell’impiego del personale di locomotiva; la consegna dei nuovi treni bipiano è in ritardo da diversi anni; l’aumento dei cantieri rende complesso trovare il giusto equilibrio tra esercizio ferroviario e attività di costruzione; sono stati fatti compromessi a favore dell’offerta ferroviaria a scapito della puntualità, senza una sufficiente trasparenza”. Insomma, questo mea culpa dimostra tutta la incapacità manageriale di chi ha gestito in questi anni un servizio che era invidiato in tutto il mondo ed era considerato fiore all’occhiello del Made in Switzerland.

Anche perché questo elenco è assolutamente parziale e incompleto. Lo sanno bene gli utenti (che non a caso l’azienda definisce “clienti”, trasformando ciò che un tempo era servizio pubblico in semplice ricerca di profitto), utenti che in questi anni hanno visto la chiusura delle biglietterie e delle sale d’aspetto; i ritardi cronici e la perdita di coincidenze nelle ore più critiche (quando si va o si torna dal lavoro, oppure si rientra in Ticino dalla Svizzera interna) scaricando di volta in volta le responsabilità sui Pendolini, sui cantieri, su “eventi verificatisi all’estero”; la soppressione di collegamenti verso sud (avete mai provato a tornare in treno da Milano in serata?); i viaggi in piedi con carrozze affollate all’inverosimile; la preoccupante riduzione della sicurezza (non si possono dimenticare facilmente i treni deragliati o chi è rimasto vittima di sistemi di sicurezza mal funzionanti).

Ma lo sa bene anche il personale, che si è visto ridurre di numero per poi essere richiamato in tempi di emergenza; o che deve subire le lamentele di passeggeri che viaggiano su treni sempre meno puliti e senza la garanzia di un posto a sedere.

Per non parlare delle scelte strategiche che hanno ridotto Chiasso a stazione secondaria e il prolungamento di AlpTransit a sud di Lugano una richiesta inascoltata, che si concretizzerà forse solo fra un paio di generazioni.

Un bilancio in chiaro scuro, si è soliti dire al termine della carriera di un top manager. Più scuro che chiaro, diremmo forse di questo manager del quale non conosciamo neppure l’entità della sua buonuscita.

Luigi Maffezzoli

n/a