Il (Don) Giovanni di Valerio Binasco, un volgare e violento adulatore

© Donato Aquaro

Conduce al LAC di Lugano l’ennesimo viaggio di Don Giovanni, l’antieroe per eccellenza nato dalla penna di Tirso de Molina (1632), ripreso poi dalla tragicommedia di Molière (1665) e reso celebre dall’opera lirica di Mozart (1787). Mito della letteratura occidentale, nel riadattamento di Valerio Binasco, diviene un semplice uomo o meglio, come lo definisce il regista stesso, «un autentico delinquente, non un borghese che si atteggia».

L’elegante e fine figura che ci aspetteremmo di vedere sul palco è infatti subito disattesa dalla prepotente presenza (fisica e non) di Gianluca Gobbi, che indossa anfibi, una camicia mezza sbottonata e una giacca di pelle (scelta della costumista Sandra Cardini). Volgare, rude, e violento oltre misura è il Don Giovanni di questo adattamento, frutto della ricerca del personaggio, da parte di Binasco, «nella vita, più che nel testo».

Moderno è anche lo scenario dello spettacolo scelto da Guido Fiorato. Don Giovanni e il pavido servitore Sganarello, brillantemente interpretato da Sergio Romano, alloggiano in una dimora fatiscente, le cui pareti sgretolate e gli arazzi in rovina sembrano il riflesso dell’anima del protagonista: corrotta, votata al male e capace di trascinare in disgrazia chiunque venga travolto dalla sua passione smodata.

Una delle vittime amorose di Don Giovanni è la dolce Elvira (impersonata da Giovanna Faggiano), strappata dal convento e sedotta con la promessa di un matrimonio che non avverrà mai. Spettatore impotente di queste ingiustizie è il povero Sganarello, che, spinto più dalla paura che dalla fedeltà, serve il suo padrone; disapprova il suo comportamento, ma è troppo pavido per manifestare apertamente il suo disappunto. Ed è proprio quando il servitore si dimostra più risoluto che mai ad evidenziare al suo padrone la sua mala condotta, che questi lo incanta con le sue parole. Don Giovanni spiega lui la sua morale distorta, dove la fedeltà è un falso onore, e la costanza la virtù delle persone da poco; libero da questi “mali” lui vota la sua vita alla bellezza e alla conquista, e il massimo piacere che lui prova è adulare le donne, vincere il loro pudore, conquistarle e infine abbandonarle.

Condotto dalla passione, e non dall’amore (di cui parla il prologo di Tirso de Molina, proiettato – provocatoriamente – all’inizio dello spettacolo, sul sottile velo che avvolge il sipario), l’adulatore ha già dimenticato Elvira. Geloso della felicità che condivide una coppia, si propone di rapire la donna e uccidere l’uomo; il piano va in fumo, ma il protagonista è già diretto verso nuove avventure. Proiettato in un’umile taverna partenopea, Don Giovanni nota una donna, illuminata da dei filari di luci al neon. Si tratta di Carlotta, che gestisce il locale, e che si scoprirà essere promessa sposa di un compaesano (impersonato da Lucio De Francesco). Questo, di certo, non frena l’adulatore, che la conquista, così come aveva già fatto con un’altra donna del luogo, Maturina (Marta Cortellazzo Wiel); vinte entrambe, ancora una volta, dalla promessa di matrimonio. Quando le due si incontreranno, sarà occasione di una scenetta comica molto apprezzata dal pubblico: entrambe, sicure dell’onestà del forestiero, si accusano vicendevolmente. Don Giovanni riuscirà a farla franca ancora una volta, dichiarando che la verità sarebbe stata manifesta quando si sarebbe sposato.

I guai però inseguono Don Giovanni, che nel folto di un bosco, da cui si staglia un paesaggio lunare, incontrerà Don Carlos (Fulvio Pepe) e Don Alonso (Vittorio Camarota), i fratelli di Elvira, decisi a vendicarla uccidendolo; fine a cui l’adulatore riesce a sfuggire, dapprima salvando Don Carlos da dei farabutti che lo avrebbero ucciso (il quale è così obbligato ad essergli riconoscente) e in un secondo tempo, facendosi beffe del Cielo: quando rincontrerà i due si dichiarerà pentito e pronto a morire per volere del Cielo, in nome del quale avrebbe abbandonato Elvira, che non voleva sottrarre dal convento. Con la stessa ipocrisia riuscirà ad ingannare anche il padre, Don Luigi (interpretato da Fabrizio Contri), il quale lo aveva minacciato di rinnegarlo (in quell’occasione, in particolare, il Don Giovanni di Binasco lascia piuttosto perplessi; dopo le parole del padre, quell’impentito adulatore scoppia infatti a piangere).

La resa dei conti è però ormai vicina, ed è forse preannunciata dalla sparizione dal palco di una madonnina in penombra, fino ad allora onnipresente sulla scena, quasi a simboleggiare che agli occhi del Signore nulla passa inosservato. Come noto, Don Giovanni morirà per mano della statua vivente di Don Gonzalo (uomo che uccise nel passato), che lo trascinerà all’inferno. Il sipario cala così sulle parole di Sganarello che con una rabbia inusuale grida a gran voce che non avrà mai più il suo salario.

Il riadattamento di Binasco si tratta senza dubbio di una proposta originale ma che lascia, al contempo, qualche interrogativo. La scelta di proporre un volgare e trasandato adulatore in luogo di un elegante gentiluomo che nasconde rozzi desideri rischia forse di far passare in secondo piano la doppia natura dell’originale protagonista, affascinante ma empio. Il Don Giovanni di questo spettacolo ha poco del gentiluomo, e non si riesce a capire perché le donne si facciano conquistare da un uomo che non ha nulla di affascinante, i cui vestiti trasandati, le cui parole violente e gli atti volgari manifestano apertamente la sua vera natura. Tutto questo, tuttavia, lo si sottolinea ancora una volta, è il frutto di una precisa scelta da parte del regista, che ha voluto presentare un adulatore moderno, che ha riscosso un buon apprezzamento da parte del pubblico del LAC.

Lucrezia Greppi

 

 

 

 

 

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