Il monologo polifonico di “H2 – Hebron”

Dopo il rumore di un’esplosione, si aprono le porte e la piccola platea (ieri è stata aggiunta una rappresentazione alle 18.30, visto che quella delle ore 20.30 era andata esaurita in fretta) è invitata ad entrare nell’opportunamente modificato Teatrostudio del LAC; in mezzo un lungo tavolo, le une di fronte alle altre due fila di sedie, a sinistra e a destra. Un profluvio di parole, in quello che ossimoricamente potremmo definire un monologo polifonico, si rovescia sul pubblico, interrotto solo da qualche effetto sonoro e, alla fine, anche da un filmato silenzioso. H2 – Hebron, è la storia di un luogo e di una strada, diventati un fantasma di rovine e di persone, i palestinesi che hanno potuto se ne sono andati, i rimasti sono sottoposti a sorveglianza continua da parte degli israeliani che amministrano l’area, controlli, vessazioni, resistenza impari tra lancio di pietre e armi, morti di civili tra cui bambini, perquisizioni e persecuzioni, divieti anche solo di passeggiare, in una guerriglia senz’anima, senza pietà, senza fine. Ruth Rosenthal, che insieme al musicista Xavier Klaine forma il duo Winter Family realizzatore della rappresentazione nell’ambito del FIT, ha raccolto numerose testimonianze la cui selezione è proposta in francese senza soluzione di continuità (con passaggi improvvisi, a volte faticosi da seguire, in una schizofrenia narrativa sempre in prima persona), si avvicendano le voci di soldati, coloni ebrei, gente comune, chi lavora, chi ci vive, aguzzini e vittime, ribelli e rassegnati. Ma il filo rosso è dato dal considerare gli astanti come turisti di guerra, quei gruppi che vengono invitati, spinti attraverso la pubblicità, a visitare, tanto per fare una vacanza un po’ più adrenalinica o per una documentazione in ogni caso pilotata, luoghi dell’orrore, di sangue e morte. E Ruth si presenta nelle vesti principali della guida, sul tavolo, mentre racconta tra presente e la storia che va all’origine di quel territorio, depone edifici, case, monumenti religiosi, luoghi venerati ugualmente da musulmani ed ebrei, mura, le riproduzioni miniaturizzate che, via via, formano un plastico della zona. Questo crea anche una certa distanza nel gioco, come anche gli effetti speciali, il fumo, il gran caldo sprigionato da griglie incandescenti che ad un certo si accendono sopra la testa degli spettatori, e i suoni. Sono gli stessi realizzatori ad affermare, nella breve chiacchierata successiva alla replica, che si trattava di una scelta di gioco, ad effetto. Il filmato mostra invece la realtà di questa lunga e polverosa strada quasi sempre deserta, di morte e guerra. Ma nell’insieme le parole sembrano che non bastino, volutamente asettiche, sarcastiche, ciniche, se è apprezzabile questo tour de force, il tentativo d’immersione visiva e sonora, di disagio mimetico, crea più distanza che coinvolgimento emotivo, l’artificio in questo caso, la finzione così dichiarata esplicitamente, rischia di soffocare il documento e di anestetizzare, “sterilizzare”, come dicono gli israeliani di quella zona, anche il pubblico.

Manuela Camponovo

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