Il virus che ci fa riscoprire la vera economia

Gente in fila davanti ad un negozio di alimentari durante la Grande Depressione del 1929 (Fonte: NPR).

Le code fuori dai supermercati con le persone a debita distanza in attesa del proprio turno, diventeranno uno dei simboli di questi mesi di epidemia. Così come lo sono state per simboleggiare la crisi americana del ’29, con i disoccupati in cerca di un sussidio per campare, o le code in tempo di guerra per ritirare pane e zucchero con la tessera annonaria.

L’economista Luigino Bruni, in uno splendido articolo apparso il 22 marzo sul quotidiano Avvenire, paragona le code ordinate ai supermercati alle processioni: in quelle file – scrive – “si sente una solennità che le rende simili alle file per ricevere il pane eucaristico, di cui hanno preso il posto”. Ci ritroviamo così nei supermercati per cercare quel pane quotidiano che un tempo si invocava con preghiere mai più recitate. In questo tempo sospeso, l’economia si è ridotta a questo. Alla ricerca delle cose essenziali per vivere. Alla pura sussistenza.

Bloccate tutte le attività lavorative in Cantone Ticino e in Lombardia, fuorché quelle legate alla sanità e ai bisogni primari, ci ritroviamo a vivere l’esperienza dell’economia domestica, unica economia permessa dalle autorità. Che è poi recupero del significato originario del termine: oikonomia è infatti il temine greco che indica la gestione della proprietà familiare, il governo della casa, da cui poi è derivato il più vasto concetto di economia come governo della proprietà in senso più vasto. L’economia di questi giorni – è ancora Bruni a ricordarcelo – è quindi uscita dal regno tecnico degli economisti per diventare lavoro, disperazione e speranza. Nelle grandi crisi davanti al’impotenza e nudità degli esperti, il popolo si riappropria delle grandi parole della vita.

Diventa così fuori luogo il comportamento di coloro (in altri momenti lo avremmo invece ammirato come coraggioso e lungimirante) che a casa nostra come pure oltre oceano hanno tentato di ridimensionare la tragedia umana di questa epidemia affermando che l’economia non andava fermata e che bastava solo ridurre parzialmente le attività meno produttive. Invece ci siamo accorti che l’economia capitalista che ci ha addomesticato le coscienze, può essere fermata. Anzi, deve essere fermata perché tutti possano sopravvivere.

È un tempo sospeso, dicevamo. Un tempo lungo che ci fa comprendere il significato vero di un altro termine che avevamo annacquato: quarantena. Quaranta giorni di isolamento. Perché quaranta giorni, alla fine, lo saranno veramente. Chiusi in casa. Isolati dalle persone più care. Senza possibilità di abbracciare nessuno o di assistere ai funerali di chi ci è stato amico. Quaranta giorni e non quattordici, o cinque, o undici come il dottor Giorgio Merlani con gran confusione ha annunciato in queste settimane, su indicazione dell’Ufficio federale della sanità pubblica.

Quaranta giorni come quelli della Quaresima, tempo offerto da Dio per riflettere sul senso ultimo della vita prima della morte del venerdì santo, del vuoto del sabato e della resurrezione della domenica di Pasqua. Viviamo una sorta di Quaresima sociale, leggendo di morti nelle pagine di cronaca e in quelle, raddoppiate, dei funebri. Sperando nella resurrezione che – siamo certi – arriverà.

Luigi Maffezzoli

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