A “In alto mare”: quando la libertà è vita
Una donna che impara a farsi andar bene, con la forza dell’autoconvincimento, una restrizione terribile: la restrizione delle sue libertà fondamentali, più precisamente la libertà di vivere e autodeterminarsi. È la storia di una lunga estenuante deprivazione, in più tappe, la pièce tragicomica In alto mare, portata in scena in questi giorni, dalla compagnia locarnese Teatro Thalìa. Bravissimi gli attori (Simone Ganser, Camila Koller, Polina Tallone, Ettore Chiummo), capaci di suscitare la risata – forza di un riso che libera – pur immergendosi in temi esistenziali serissimi. Tutto incomincia da una zattera in mare e tre naufraghi – il “Naufrago Grande, il “Naufrago Medio” e il “Naufrago Piccolo” – che si trovano confrontati con il più crudele dei dilemmi: chi sacrificare dei tre, per far sì che gli altri due abbiano cibo a sufficienza per sopravvivere? Più che la risposta, è il metodo per raggiungerla che conta: bisogna di fatto, che i naufraghi scelgano se avvalersi di una votazione democratica, o se affidarsi al caso con un sorteggio, o ancora, se decidere aprioristicamente. A ciascun metodo corrisponde un’immagine di società: all’elezione la democrazia, alla scelta bruta la dittatura. Ognuno, in una prima fase appunto più “democratica”, avanza le proprie ragioni, come se si trattasse di un comizio elettorale e di convincere gli elettori: chi, come il “Naufrago Medio”, che asserisce di non aver bisogno più di quel tanto di cibo, chi, invece, come il “Naufrago Grande”, che dice di avere diversi acciacchi e di non essere quindi appetibile. Ma sono discorsi che non convincono e, soprattutto, che non aiutano più di tanto ad identificare la vittima. Una vittima, che il pubblico va scoprendo essere predeterminata, già scelta, diremmo “destinata” a questo gesto di “alta umanità”: offrire il proprio corpo in pasto ai compagni di viaggio. La scelta, l’attenzione ricade sull’esile “Naufrago Piccolo” – la brava Polina Tallone – che si vuole convincere in tutti i modi, nello stile di un regime perfettamente “totalitario”, a credersi felice e realizzata nella sua scelta di rinuncia definitiva.
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