Jan Fabre e le ambiguità di un’autobiografia

Stralci da un’autobiografia con tutto il narcisismo e l’autoreferenzialità che questo comporta per un gruppo di spettatori sul palco del LAC di Lugano. All’interprete, Lino Musella, è sufficiente un tappetto sabbioso, quattro pietre (stein, di cui vedremo la funzione), un tavolo, i fogli, un grande schermo alle spalle con proiezioni della sua ombra, in alternanza a frasi aforistiche o scene dal cortometraggio fallimentare sul fiume di Anversa, per entrare nell’altrettanto fluviale Giornale notturno di Jan Fabre, prima opera, The Night Writer, adattata in italiano (anche le scene e la regia sono firmate dall’artista belga). In un ordine non cronologico, ma riferiti soprattutto agli anni ’70 e ’80 e al luogo dominante, la città natale, appunto Anversa, con qualche excursus a New York, Parigi, anche Basilea…, scorrono i pensieri sul privato e pubblico, con autocitazioni dai lavori della carriera di questo essenziale disturbatore. Lui, da animale notturno, creativo, scimmiottante la bohème dei poeti (quelli veri…), fuma, beve, mangiucchia esaltando fisicità, umori tutti di cui servirsi metaforicamente e no, dal sangue allo sperma al piscio… Le sentenze sul teatro, il rapporto con gli attori, la creatività, la famiglia esibita in maniera esageratamente disastrata, come gli incontri amorosi con la donna matura che mantiene lo squattrinato genio e sregolatezza secondo i più correnti cliché, forniscono interessanti informazioni su Fabre, in questa valanga provocatoriamente anche trash, come quando canta Amandoti, sfruttando la vicinanza del pubblico e invitandolo a collaborare con il “zam-zara-zà”, oppure una sgangherata versione di My Way e di VolareLa bellezza è scomoda, rivoluzionaria afferma, solo che di vera bellezza qui c’è poco, soltanto l’irrefrenabile esibizione di se stesso che alla fine diventa noia, nonostante qualche gioco di prestigio o escamotage come quello delle pietre emblemi dello scienziato (Ein-Stein), dello scrittore (Gertrude-Stein), del filosofo (Wittgen-Stein) del dottore (Franken-Stein), carino ma nulla di più. Musella è bravo di suo, attraverso variate sfumature espressive, a calarsi nel personaggio così costruito a modello dell’artista che interpreta se stesso (e che ad un certo punto appare in scena nelle sembianze di una marionetta fumante, in muto dialogo speculare). Volutamente megalomane, sfottente, trasgressivo (“Io sono un errore / ¨Perché voglio essere un errore / Io sono un errore / Perché non sono un essere umano / Io sono un errore / Perché sono un dio”) ma senza essere sfiorato dalle altezze di un Carmelo Bene o dall’ambiguità di fondo. Rivendica un’etica nei confronti di un mondo che non ce l’ha o l’ha perduta, ma ponendosi egli stesso al di sopra e al di là di qualsiasi morale, proprio in qualità di uomo e artista a cui tutto dovrebbe essere concesso. Più che scomoda, la supposta “bellezza” diventa comoda… Applausi. Si replica questa sera, sul palco del LAC a Lugano.

Manuela Camponovo

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