A La grandezza di un critico che ha diviso

Harold Bloom

Il critico letterario Harold Bloom in un’immagine del 2005.

L’americano Harold Bloom, recentemente scomparso a 89 anni, è ritenuto con George Steiner uno dei maggiori critici letterari del secondo Novecento. Studioso coltissimo e filosoficamente ispirato, insegnante nelle più prestigiose università degli Usa, vedi Yale, ha consacrato la propria vita alla letteratura mondiale: una singolare cittadella in cui si sentiva dispotico sovrano. Era un pensatore radicale. La predisposizione a creare o abbattere idoli – nota la sua idiosincrasia per Eliot, ad esempio – e a stabilire gerarchie insindacabili, gli procurò adesioni entusiastiche o al contrario acerrime inimicizie. Difendeva tenacemente l’autonomia del testo da qualsivoglia ingerenza sociologica o ideologica (tanto da irritare bigotti, marxisti, femministe e… accademici). Il motivo di fondo che pervade il suo discorso potrebbe essere questo: “I massimi scrittori dell’Occidente sovvertono tutti i valori, i nostri e i loro propri”.

Il sistema di Bloom si fonda su una concezione organicistica-verticistica della letteratura, che ha l’intertestualità per presupposto, e dove l’agonismo dei contendenti, teso a scavalcare o comunque “ripotenziare” i predecessori dai quali essi sono influenzati, ricorda in un certo senso la “rivalità mimetica” teorizzata da René Girard. Ma in tal modo le opere cresceranno di epoca in epoca, trasformandosi e affinandosi, fino a perseguire quell’arciscrittura primordiale ipotizzata dalla Kabbalà ebraica. E ciò paradossalmente grazie anche alla mislettura, ossia al fraintendimento più o meno cosciente di un testo da parte dell’erede che lo indaga: “La storia della poesia dev’essere considerata indistinguibile dall’influenza poetica, poiché i poeti forti costruiscono tale storia travisandosi l’un l’altro, in modo da liberare un nuovo spazio alla propria immaginazione”. Sennonché il padre, nell’esercitare la sua autorità benefica sul figlio o nipote, genera angoscia in loro. Ricollegandosi a un pensiero già espresso in passato da Wilde e chiamando in causa Freud, Bloom la definisce angoscia dell’influenza: “Niente si ottiene per niente, e l’autoappropriazione comporta dunque enormi angosce di indebitamento”.

Incessante contesa e durata nel tempo, quindi. Sono le premesse per affrontare un argomento assai delicato (e francamente un po’ esasperante) anche alle nostre latitudini: vale a dire il canone, la lista dei grandi. Nell’imponente volume Il canone occidentale (1994), Bloom prende in rassegna ventisei scrittori mondiali, “tra le molte centinaia che un tempo formavano il Canone Occidentale”. A prescindere dal misterioso Jahvista (supposto autore o autrice dei primi libri del Vecchio Testamento), l’indagine si attesta su un ristretto gruppo di autori rappresentativi dei canoni nazionali. Si parte dal Medioevo (Dante e Chaucer), pur riconoscendo che “l’archetipo fondamentale della compiutezza letteraria sarà sempre Pindaro”.

Se Dante, pare ovvio, è messo in pole position, Shakesperare lo eguaglia in questa lotta per il primato: “Esattamente come Dante supera ogni altro scrittore, prima e dopo, nell’enfatizzare una definitiva immutabilità di ciascuno di noi, una posizione fissa che dobbiamo occupare in eterno, Shakespeare supera ogni altro nel dare evidenza a una psicologia della mutabilità”. Parole scolpite nel marmo ma fin troppo apodittiche, che finiscono per offuscare numerosi scrittori meritevoli di riguardo, a dir poco. Come il Petrarca, inventore di un modello poetico che avrebbe influenzato (scelgo non a caso un’espressione bloomiana) intere generazioni. Lo studioso riconosce indubbiamente la sua importanza, senza però trarne le necessarie conclusioni. Per non dire del Boccaccio in rapporto a Chaucer, il quale sarebbe “più robusto scrittore del Boccaccio”. Dobbiamo scusarlo? A dispetto del suo geniale universalismo, Bloom è rimasto un inveterato anglocentrico.

Gilberto Isella

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