Le favolose strade di Bruce Chatwin

Trent’anni fa, il 18 gennaio 1989 moriva Bruce Chatwin. Scrittore, viaggiatore, fotografo, esperto d’arte, ha impresso nella fotografia e nella narrazione tutti i mondi che ha incontrato, dall’Afghanistan al Nepal, dalla Patagonia all’Australia.

La stazione di Jaramillo in Patagonia

Era nato nel 1940 nel Warwickshire, nella campagna inglese, cresciuto tra due zie anch’ esse, a quanto raccontava, eternamente vecchie ragazze: pittrice di imbarazzati nudi maschili l’una, l’ altra fedele ad antichi valori britannici e vittoriani. A sei anni aveva visto lo shakespeariano Misura per misura, e le zie si erano a lungo domandate se la cosa gli poteva essere dannosa. Come risposta aveva scritto la prima frase di quello che voleva fosse il suo primo libro: Sono una rondine.

Patagonia, resti di un’imbarcazione

Dopo una breve parentesi allineata – enfant prodige della cultura inglese, direttore del settore Impressionisti di Sotheby’ s – a vent’anni parte, come le rondini. Insegue le sue onnivore curiosità di antropologo, etnologo, paleontologo dilettante. Vuole annusare e gustare la vita, là dov’è rimasta autentica.

Un’immagine catturata in Africa occidentale

Nasce così In Patagonia, 1977, ed è una folgorazione per il mondo letterario ed artistico: Chatwin racconta e fotografa quello che vede, quello che gli raccontano, le leggende, i ricordi di vecchi rivoluzionari pentiti e rivoluzioni fallite. Interroga, cuce, spazia, inventa. Come tutti i viaggiatori, sovrappone ricordi, citazioni, bugie. Il suo secondo libro, Il viceré di Ouidah, somiglia di più a un romanzo dove si mescolano la storia e la fantasia barocca e funerea dell’autore. Un impasto di delirio e grottesco, di fantasia e verità, orrori e poesia, reticenze e brutalità. Per smentire possibili abbandoni al reale, cambia registro, intonazione e ispirazione: Sulla collina nera, 1982, (anch’ esso tradotto in film) è una storia di vite parallele o di io diviso. E di nuovo per smentire chi pensava di aver catturato il suo stile, Chatwin torna a una scrittura tradizionale, anche se pepata; ad una narrazione consecutiva e ad una trama romanzesca innestata su un tessuto reale. Con Le vie dei canti, 1987, riprende, per altre strade, le atmosfere di In Patagonia, la vocazione di rapsodo, viaggiatore, curioso, questa volta in Australia, nel cuore del deserto attorno a Alice Springs, in mezzo a nomadi aborigeni che hanno attraversato con passo leggero la terra tracciandovi le vie dei canti: le memorie, gli itinerari sacri. Recuperando i propri ricordi di nomade bianco nelle storie di tre vecchi aborigeni prossimi a morire, sfiora una religiosità primitiva, originaria, lasciando trasparire una sorta d’invidia per chi è depositario d’una fede. «Stavano bene, sapevano dove stavano andando e sorridevano alla morte sotto l’ ombra di un eucalipto». Tra questa frase e il giorno della sua morte Chatwin trova il tempo di scrivere un altro libro “Utz”, storia d’un collezionista d’ arte. Ed anche qui lo scrittore-fotografo, errabondo dissipatore di sé, malato da tempo di AIDS, parla di chi, come lui, è divorato da passioni troppo forti per essere dominate.

Dalmazio Ambrosioni

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