Lettura manzoniana all’USI: il Cardinal Borromeo e il tempo collettivo della grazia

“Una struttura calcolatissima, quasi cristallina, che presenta delle simmetrie profonde”. Inizia definendo così il prof. Giacomo Jori i capitoli dei “Promessi Sposi” sui quali si è soffermato ieri sera nella penultima Lettura manzoniana promossa dall’Istituto di Studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. Al centro della sua analisi la figura del Cardinal Borromeo, dell’Innominato ma anche di don Abbondio.

“La propensione a leggere il Cardinal Federigo e l’Innominato in modo complementare – ha esordito il professore – è già attestato nel “Fermo e Lucia”. Così la critica è solita concentrarsi sulla rappresentazione della coppia Innominato/Cardinal Federigo nei capitoli XXII e XXIII dei “Promessi Sposi” e, nel rapporto che lega i due, non bada sufficientemente a un terzo personaggio cruciale, don Abbondio. Ma se è necessario dare un peso anche a lui, bisogna considerare la presenza della coppia in un ambito testuale poco più ampio, dal cap. XIX al cap. XXVI, quando vi è il secondo dialogo, quello tra il Cardinale e don Abbondio”. “Il confronto tra questi capitoli rivela dei rapporti intertestuali inseriti in una struttura profondamente simmetrica.” Il professore ha quindi mostrato – nell’arco di questi capitoli – l’alternarsi misurato, calcolato, ben ponderato di excursus biografici, ritratti dei singoli personaggi e dialoghi; una struttura che diventa un vero e proprio leitmotiv, capace di unire tra loro i personaggi della trama in modo inequivocabile.

Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.
(Ritratto del Cardinal Federigo, “Promessi Sposi”, cap. XXIII)

“Il Cardinal Federigo – fa notare il prof. Jori – è messo in relazione sin dall’inizio con una fonte di acqua viva, come qualcuno da cui scaturirà la grazia, la misericordia; inoltre, sulla scia della Controriforma, egli è ricordato tra le righe come il miglior ultimo frutto dell’umanesimo devoto, sebbene Manzoni ironizzi anche su questo. Tuttavia, egli non tralascia di ricordare il suo contributo alla fondazione della Biblioteca ambrosiana. Un aspetto interessantissimo, se si calcola che l’Ambrosiana nasce sul modello della Biblioteca vaticana, ma negli anni in cui scrive Manzoni quest’ultima non gode di grande fervore. Manzoni celebra così la Chiesa ambrosiana, la sua forza culturale, contro quello che Gioacchino Belli scriverà nei suoi sonetti. A completare il quadro, Manzoni ci dice che quella del Cardinale è una “verità confermata dalla vita”. Riemerge con forza il grande tema della coerenza, al centro del dibattitto sull’omiletica nel Seicento: per quel periodo, la prima caratteristica che deve avere l’oratore cristiano è che la sua vita sia coerente con quello che predica.”

Per quanto concerne l’Innominato, invece “lo definirei il più straordinario teologo dei “Promessi sposi”. Egli riscopre la verità su se stesso aiutato da un processo maieutico. Nella sua prima comparsa lo ritroviamo a chiedere con supponenza al Cardinale: “Sapete chi sono? Vi hanno detto bene il mio nome?”. Parole che prefigurano il viaggio che egli stesso di lì a poco intraprenderà per riscoprire la sua vera identità. Scava nella sua coscienza per virtù della grazia. Il risultato? Nessuno pronuncia il nome di Dio così intensamente quanto lui. Se stiamo a quanto dice nel suo celeberrimo saggio Giovanni Pozzi (“I nomi di Dio nei Promessi Sposi”), l’unica volta in cui Dio, all’interno del romanzo, prende la parola, lo fa infatti per bocca dell’Innominato, proprio colui che paradossalmente non ha nome”.

A legare l’Innominato e il Cardinale, nel romanzo, due echi evangelici ben precisi, la parabola del Figliol prodigo e l’Epistola ai Romani di San Paolo: “dove abbonda il peccato sovrabbonda la grazia”. Tuttavia, si tratta di un legame su cui riflettere bene. “Ad esempio, nell’antiporta dei “Promessi Sposi” illustrati dal Gonin – fa notare il professore – al centro non troviamo il Cardinal Federigo e l’Innominato, bensì – posti l’uno di fronte all’altro – quest’ultimo e don Abbondio. Che ne è, dunque, del Cardinale?”.

La risposta è illuminante: “L’Innominato è l’io nel suo isolamento sovrano, nella sua assolutezza, sta nel luogo più alto da cui vede tutti e non vede nessuno al di sopra di se. Non vede che la propria singolarità. Nella strategia narrativa di Manzoni, invece, il Cardinal Federigo è l’ecclesia, la dimensione collettiva della Chiesa; pensiamo a tutta la gente che si rallegra e gli corre incontro. In lui c’è proprio una dimensione collettiva ed ecclesiale antitetica all’individualismo assoluto dell’Innominato. La conferma ci arriva dalle stesse parole con le quali a un certo punto il Cardinale si rivolge all’Innominato, ricordandogli quanto la sua conversione possa fare del bene all’intero popolo cristiano:

Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto.

Secondo il Cardinale, forse la grazia segretamente già agisce e siamo tutti parte di una vicenda comune, che è anche quella del romanzo. Egli sta alludendo ad una dimensione corale. Sentiamo qui tra l’altro chiaramente un Manzoni traumatizzato dalla Rivoluzione francese e poi dall’esperienza napoleonica, che cerca un’alternativa alle fratture. Il risultato finale? Il Cardinale risulta essere una figura immanente a tutte le altre e simbolo evidente del trascendente, che in un certo senso scardina anche la tentazione di voler leggere sempre e solo tramite dei parallelismi i rapporto tra i vari personaggi del romanzo. C’è un personaggio, ed è il Cardinale, che va oltre questi paragoni insistiti”.

“Così, quando l’Innominato vive nel peccato e nel suo isolamento, è prigioniero di un “tempo voto”, perché non è il tempo collettivo della Chiesa, il tempo liturgico. Il tempo è l’ossessione dell’Innominato ma forse anche del Manzoni. Nell’ultimo dialogo tra don Abbondio e il Cardinal Federigo troviamo infatti una formula cruciale: “Ricompriamo il tempo”, suggerisce il cardinale a don Abbondio. La chiave di questo insistere sul tema del tempo si trova dunque nel dialogo con quest’ultimo”.

E la cosa più interessante è individuare la fonte di questa espressione: “Vi leggiamo certo la ripresa della parabola evangelica delle dieci vergini che attendono lo Sposo, ma c’è anche quel “rachetons le temp” che si trova nell’opera del 1812 del gesuita Louis Bourdaloue, in un brano sui doveri del buon religioso e che è presente nella biblioteca del Manzoni; un’espressione che il gesuita stesso recupera da Cicerone, dunque una fonte laica. Ma proprio per essere più fedele a questa espressione, che Manzoni ritiene centrale, egli la sostituirà un “riscattiamo il tempo” con il “ricompriamo il tempo”, nel recupero forte di quella dimensione morale e spirituale, che vediamo nel passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana”.

Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno. Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.
(“Promessi Sposi”, cap. XXVI)

Entrons nous-même en jugement avec nous-mêmes mais entrons-y sérieusement, sans ménagement, sans retardement. Rappelons dans l’amertume de notre ame toutes nos années, supputons toutes nos pertes, tâchons de les réparer, rachetons le temp; et sans faire aucun fonds sur le passé, concluons comme David: C’est maintenant, Seigneur, que je vais commencer.
(Louis Bourdaloue, “De l’état religieux”)

“E non è tutto – aggiunge il professore – perché padre Bourdaloue aggiunge l’esortazione “Entrons nous-même en jugement avec nous-mêmes”. Non è forse l’eco di “Voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita”, l’allusione del Cardinale all’Innominato nel cap. XXIII? Ecco dunque perché nell’antiporta del Gonin i due personaggi sono in posizione parallela: perché le due conversioni – dell’Innominato e di don Abbondio – partono dalla stessa fonte”.

“Uscire dal “tempo voto” per ricomprare il tempo è dunque inscrivere il proprio destino nel destino collettivo che il Cardinale rappresenta, di cui l’unico signore è Dio”, conclude il professore.

Non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! (Fra Cristoforo a Renzo, “Promessi Sposi”, cap. VII)

Il prossimo appuntamento con la Lettura manzoniana – l’ultimo del semestre – è per mercoledì prossimo, sempre alle 18 in Auditorio USI, con la lezione del professor Raffaele De Berti, sulle “Trasposizioni cinematografiche e televisive dei Promessi Sposi”.

Laura Quadri

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