“L’importanza di chiamarsi Ernesto”, una pièce per ridere e per pensare

Dopo il “Fu Mattia Pascal”, torna un grande classico sul palco del Teatro di Locarno: “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, messo in scena dalla famosa compagnia milanese “Teatro dell’Elfo in questi giorni.

Un nome che non ami e l’idea – un po’ folle – che ti porta a scegliere di portarne un altro, anche a costo di mentire a tutti. La storia è nota, notissima: due uomini, Jack e Algernon, amici da una vita e inconsapevolmente fratelli, decidono che per sopravvivere alla frenesia della quotidianità e per avere maggiore libertà di movimento, devono inventarsi delle identità fittizie a cui ricorrere per staccarsi ogni tanto dall’ambiente quotidiano, l’uno per andare a bighellonare in città, l’altro per potersi godere un po’ tranquillamente la campagna. Sulla falsariga di questa tensione, si crea una pièce di equivoci che fa davvero divertire, soprattutto se la messinscena è convincente e la risata calibrata, come in questo caso.

Ma è tutto solo divertimento? In realtà, più che dissacrazione dell’ambiente vittoriano, come avrebbe voluto essere il racconto di Wilde, la pièce, trasposta ai nostri giorni, diventa a una considerazione generale sulla difficoltà di trovarsi a proprio agio nei propri panni, una riflessione, a ben pensarci, più che mai attuale. Non è forse questo lo stesso desiderio che in realtà ci spinge molte volte a costruire relazioni “virtuali”? Non siamo forse segnati dallo stesso “desiderio di evasione” che contraddistingue Jack e Algernon? Tra una risata e l’altra, forse un po’ a fatica e a nostro malgrado, la pièce ci costringe così a riconoscere anche i lati più scomodi del nostro essere al mondo oggi e riflettere sul modo con cui ci presentiamo agli altri.

Ma come fare quando queste bugie devono essere sostenute davanti alla persona che ami? L’amore può ammettere la bugia? È allora che il paradosso si rivela tale; se le donne sulla scena si dicono convinte che dietro il nome “Ernest” si debba celare “l’onestà, la sincerità”, i protagonisti maschili fanno loro un credo contrario: “la verità non è mai pura, tantomeno semplice”. Da questo punto di vista, i cliché di ieri sono anche quelli di oggi: la donna propensa a innamorarsi di un ideale più che di un uomo reale (quante volte!), l’uomo invece, il “contromodello”, che crede di risolvere la propria esistenza con una bugia.

Dove sta dunque “l’importanza” di chiamarsi Ernesto? Sta nello scoprire, anzitutto, che il nome che ci è dato, in fondo, è l’unico possibile, lasciandoci d’altro canto, anche durante gli applausi finali (meritati!), con un punto interrogativo da portare con noi a casa: dietro il nome di un individuo può davvero nascondersi il suo destino? Una storia, insomma, per ridere e per pensare, dove la risata non soffoca mai la riflessione e viceversa, grazie a coloro che la portano in scena con maestria. Il risultato? Una pièce arricchente, sotto tutti i punti di vista.

Laura Quadri

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