L’irresistibile “Lezione” di Ionesco al Cortile di Viganello

La lezione di Ionesco è sviluppata in un crescendo che smaschera le ipocrite finzioni nascoste dietro le morbose convenzioni della “buona società”. In fondo, è il delirio dell’uomo qualunque, così “normale” che è pronto ad imbracciare il fucile per fare una strage. Allora c’era il ricordo bruciante di due devastanti guerre, oggi, lo sappiamo più che mai, c’è una violenza diffusa, mai finita, che si annida tra le mura domestiche, dietro gli angoli delle strade che attraversiamo quotidianamente, nelle geografie del mondo. I toni dunque, all’inizio, sono frivoli e salottieri, ma le maniere educate, prive di significato, sono capaci di mistificazioni diaboliche, al cui centro c’è la parola, minaccia omicida. Quella parola che, nella sua assoluta insensatezza, travolge l’essere umano civilizzato. Quei dialoghi, spinti all’assurdo del banale e scontato più elementare, esprimono il vuoto dell’animo, la riduzione ad una razionalità alienante e svuotata di verità. Se l’aritmetica può essere pericolosa, il peggio, come avverte la governante, è la filologia, proprio lo studio del linguaggio. Il professore si lancia in disquisizioni e teorie, una più paradossale dell’altra, in un vortice irrefrenabile, mentre l’allieva, piena di ingenue e giulive belle speranze, precipita in un malessere sempre più annientante e inascoltato. Persecutore e vittima, prigionieri della menzogna dei luoghi comuni, dell’autoritarismo verbale del potere e della manipolazione della comunicazione, di cui sono cambiate le forme ma non la sostanza. Un tradimento dell’autenticità che spinge alla malattia e alla morte. Vittime e assassini seriali in una ciclicità che non lascia scampo. Non si capisce, non si vuol capire, e quindi si è portati a commettere gli stessi errori, a ripetere compulsivamente i medesimi delitti.

Emanuele Santoro, regista e interprete ha spinto sul grottesco quasi beckettiano l’immagine fisica del suo strampalato professore, potendo sfoggiare, dal punto di vista interpretativo, una prova d’attore convincente in quei lunghi monologhi che, partendo dal compiacimento narcisista dell’insegnante, assumono via via i caratteri di un conferenziere sempre più esaltato, in un apice ossessivo in cui si esprime la metafora del tragicomico moderno.

Neppure facile il ruolo di Mara Crisci che, dalla leggerezza leziosa e fringuellante di una scolaretta, deve (e sa) precipitare, a poco a poco (sommerso e trafitto il suo personaggio dalle parole del professore) nello stato di un essere rantolante, quasi animalesco, soggiogato. In maniera ancora più marcata in questa visione registica.

Pur nelle sue poche apparizioni, Roberto Albin attribuisce alla sua governante una solida presenza dalla robustezza prosaica e vernacolare (in questo caso, napoletana), senza cadere nella caricatura: Ionesco, generoso di didascalie, la suggerisce come “contadina”, rappresenta infatti quell’umanità genuina, realistica, saggia e popolana che, pur nel ruolo di serva e aiutante, sembra sfuggire alle logiche di perversione irrazionale che caratterizzano gli intellettualismi di una società malata (una volta si diceva “borghese”, oggi neanche più quello, universale ormai).

Un finale di stagione di livello che speriamo trovi il suo pubblico (ieri non conta, piovoso e tante altre occasioni per vederlo…).

Si replica al Cortile di Viganello fino al 14 aprile (alle ore 20.45; domenica alle ore 17)

Manuela Camponovo

n/a