Nicolae Ceaușescu: lusso e ipocrisia dell’ultimo tiranno dell’Est

Al “Tribunale” Militare Eccezionale non provava alcun rimorso per decenni di feroce dittatura. Non si sentiva colpevole di nulla e non avrebbe mai risposto ad un’autorità non avesse infestato dei suoi scagnozzi di partito. Sul calare del dicembre di trent’anni fa, Nicolae Ceaușescu e la moglie Elena Petrescu avevano fatto il più grande regalo di Natale al popolo rumeno: la libertà. Il dittatore dei Carpazi era molto invecchiato; la chioma era diventata sempre più bianca: i rumeni lo riconoscevano per i suoi capelli scuri, ma il logorio del tempo non aveva risparmiato neanche l’onnipotente della Valacchia, che chiese a Mosca – con cui intratteneva una bieca doppiezza di rapporti agli occhi degli occidentali – un intervento per placare le sommosse e le proteste di fine ‘89. Ma la dottrina Breznev – che prevedeva interventi di “normalizzazione” (come avvenne in Cecoslovacchia nel ‘68) negli stati satelliti alle prese con tafferugli di ogni tipo – era fuori tempo massimo ai tempi di Mikhail Gorbaciov e dopo la caduta del Muro di Berlino.

Ceaușescu era il più brutale di tutti i dittatori comunisti dell’Est Europa. E anche il più ipocrita. Mentre il suo popolo si alzava anche alle quattro del mattino per andare in fila a ricevere il pane – simile a quello dei soldati della Prima Guerra Mondiale che dovevano accontentarsi di un immangiabile impasto di acqua, farina e segatura – dittatore e consorte vivevano in regge principesche. Autentiche Versailles dell’Est: barocche, neoclassiche, pacchianissime; simboli del lusso più sfrenato promosso dai Ceaușescu. Si diceva addirittura che il dittatore indossasse ogni giorno vestiti nuovi di zecca che, in serata, venivano bruciati. Quando poi, in seguito alla rivoluzione rumena, le ville furono aperte al pubblico, i giornali di tutto il mondo pubblicarono le foto dei rubinetti d’oro (alla faccia del Comunismo) con cui, di certo, i Ceaușescu non si sciacquavano le mani sporche di sangue.

I palazzi, come d’altronde gli stessi coniugi Ceaușescu, erano ben lontani dal popolino che la coppia diceva di difendere e rappresentare: l’opulenza e lo sfarzo erano persino eccessivi per chi nel capitalismo nasceva e prosperava. Ma la ricchezza dei Ceaușescu non finiva in Romania, quanto in Svizzera, dove – in segreti caveau blindati da acciaio e segreto bancario – il Presidente rumeno nascondeva circa un miliardo di – guarda a caso – verdissimi dollari made in USA, molto più forti, in termine di potere di acquisto, di un Lei spogliato del suo (già) scarso valore sotto la dittatura. Insomma: il “Genio dei Carpazi” (come il megalomane paranoico si autodefiniva), esponente supremo dell’ideologia proletaria, era ben più ricco di molti manager statunitensi.

Figlio di padre ubriacone e autoritario, a undici anni il giovane Nicolae si recò a Budapest come apprendista calzolaio. Abbracciato in fretta il Comunismo che s’installò dopo la dittatura filo-nazista nel 1946, dieci anni dopo Ceaușescu era già alle vette del PCR (come molti sui colleghi-dittatori del passato, anche lui non aveva voglia di lavorare). Arrivato al potere nel 1967, con un acuto sistema di autopromozione – in piena sintonia con Leonid Brežnev – non fece mai mistero del suo disegno per il domani del suo paese: la Romania era cosa sua. A cavallo tra il secondo e il terzo mondo, quello sovietico e quello dei paesi non allineati abbracciò in toto il Socialismo reale, che non stonava con il culto della personalità, l’unica industria culturale rumena (libri, rappresentazioni teatrali, canzoni, ballate in onore del Genio dei Carpazi, che – tra le altre mostruosità – ammirava il Führer del Nazionalsocialismo).

Quanto alla moglie Elena, figlia anche lei di umili contadini, con la quarta elementare in tasca, con irrefrenabile ambizione, negli anni si ritagliò un ruolo sempre più centrale a fianco del marito. Onori, lauree, diplomi alla madre di tutti i rumeni. Ne venne spogliata miseramente dal tribunale improvvisato da un manipolo di militari che li aveva catturati nella rocambolesca fuga da Bucarest nel 22 dicembre ‘89. I Ceaușescu pensavano ancora di farla franca: tentarono di scappare da un’infiammata Bucarest in elicottero, mezzo notoriamente proletario. Ma il velivolo stentava a partire dai tetti degli alti palazzi della capitale: riempito all’inverosimile dall’opulente dirigenza e dai dignitari imperial-burocratici del PCR, dovette atterrare per una questione di “emergenza” quarantacinque miglia dalla sede governativa. Era oramai chiaro a tutti e due i coniugi che la fuga si sarebbe conclusa di lì a poco: non avrebbero mai potuto nascondersi in uno dei loro quaranta castelli nel paese.

Nelle riprese della farsa processuale in una caserma sperduta che tutto il mondo ha visto per televisione, era proprio Nicolae il protagonista; la moglie, con cappotto e fazzoletto in testa (quasi un ritorno fisiognomico alle origini modeste da cui veniva), era alla sua destra, seduta all’angolo della stanza. In un vicolo cieco. Il tiranno si rifiutò di riconoscere i capi d’accusa che i militari del posto riversarono sulla sua intoccabile persona: genocidio (i fatti di Timișoara erano solo gli ultimi morti che il regime aveva fatto in oltre vent’anni di dittatura) e appropriazione indebita (emersero in fretta i miliardi nascosti di cui sopra). E Ceaușescu, ancora una volta, non ci stava: protestò, agitò i pugni; disse con voce rauca di non riconoscere il “plotone” che sommariamente voleva tagliare con l’accetta i decenni della sua gloriosa tirannide. L’“Eroe dei Carpazi” era nel panico. Capì che la fine era prossima: zittì addirittura anche Elena, che puerilmente inveiva contro gli ufficiali.

Poi il processo farsa finì: finì come finì il regime; nel sangue. Neppure sfiorati dal pensiero di non aver fatto “il bene della Romania”, i Ceaușescu vennero condannati a morte: e il fatto che non ci sia stato un vero e proprio processo rimane un grave vulnus della recente Storia europea (per altri crimini, in altri contesti, figure come Slobodan Milošević, Saddam Hussein, ma anche Adolf Eichmann – se non altro – un processo l’hanno avuto). I cecchini erano pronti, nel cortile della caserma. Poi gli spari sui monarchi: ghigliottina metaforica à-la-rivoluzione francese di due secoli prima. Una liberazione simbolica, visto che poi il volto di Nicolae – preservato dal fuoco delle mitragliatrici – venne sordidamente ripreso dalle telecamere della televisione che fino a qualche giorno prima lo avevano venerato. Quello romeno, fu l’unico regime comunista dell’Europa dell’Est che cadde violentemente: e per giunta, il giorno dell’esecuzione, era anche il giorno di Natale.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

n/a