«Once upon a time in Hollywood»

Alle 20:00. Tutte le sere Locarno “apre” alle 20:00, d’accordo. Ma non ci ricordiamo di aver visto mai un serpentone di un chilometro che dalla Rotonda arriva all’ingresso della Piazza Grande ben prima delle 19:00. Tre ore prima dell’inizio di Once upon a time in Hollywood abbiamo capito di aver fatto bene a non arrivare all’ultimo momento ai cancelli. “Perché stasera c’è Tarantino”, e quindi la musica cambia. Sei già fortunato se riesci a sederti su una sedia rotta in terzultima fila (e le fila sono centinaia, con undicimila persone a occupare la piazza e il Fevi). In effetti sono bastati due minuti di film per sciogliere il magone provocatoci dall’assenza, sul palco leopardato, di Quentin Tarantino, tra i più immensi registi dei nostri tempi. Ma al piglio intellettuale di Locarno ha preferito Roma, lui, dove promuoveva l’uscita nelle sale di questo suo nono incredibile film. Cui dovrebbe seguire l’ultimo, l’addio alla carriera. Ma come, se già questo film è saturo di Tarantino quasi fosse già un testamento. Metacinematografico: che parla di cinema, di show business hollywoodiano, che parla di sé, Tarantino, dei suoi amori, a partire da quello, sconfinato, per gli spaghetti western, per Sergio Leone (qui dietro pseudonimo), per lo splatter. Per il grande cinema, soprattutto, quello che racconta storie (sia ringraziato il Cielo) e sa divertire grazie a sceneggiature originali, completamente nuove, mai viste né lette o sentite. Le quasi tre ore di spassosissimo film sono puntellate di ogni sorta di dettaglio riesumato dal vintage e rimesso al suo posto, su qualunque centimetro di schermo rivolgiamo gli occhi. Il prodotto vincente che ne esce è la miglior miscela di colonna sonora (spaziale), fotografia e scenografia finora messi in campo dal regista di Knoxville. Non c’è un angolino di Once upon a time in Hollywood che non sia interamente spalmato delle sue cifre. È come vedere Quentin Tarantino fatto film. O un film antropomorfo, che ti cammina a fianco e ti lascia senza fiato.

La trama: c’è un attore (un grandissimo Leonardo Di Caprio), la sua controfigura (in forma anche Brad Pitt) e un produttore (Al Pacino) che si ritrovano al bar. “Tutto qui”. È il 1969, siamo a Los Angeles, la New (anche Hippie) Hollywood si sta materializzando, e allora tutto è possibile, comprese le cose brutte, come l’affacciarsi sulla scena di Charles Manson, reo di aver assassinato Sharon Tate (Margot Robbie) – moglie di Polanski – la cui minaccia si fa sentire (e vedere) in alcuni snodi significativi del film; e strabilianti, dal punto di vista della resa cinematografica. Il visionario regista di Pulp fiction, sfruttando il racconto del cinema nel cinema, medita sul passare del tempo inframmezzando alle scene d’azione o thriller o splatter minuti interi quasi contemplativi, elegiaci, dal potere catartico per alcuni personaggi come il vulnerabile attore di serie TV western Rick Dalton (Di Caprio). La sceneggiatura, colma di storiografia e rimandi alla cultura filmica di quegli anni, regge in misterioso equilibrio perfetto unicamente sul genio del regista: non si spiegherebbe altrimenti come le articolatissime vicende dei protagonisti si prendano a braccetto, facciano un miglio insieme, si sciolgano “per sempre”, si reincastrino alla perfezione, divorzino ancora, poi di nuovo “a letto insieme”, addio, arrivederci, ma sì, ma no, ancora. E poi i 35mm: anche Piazza Grande puzzava di pellicola sabato sera, un profumo che il cervello dei cinefili auto sprigiona a comando davanti a un masterpiece. Applausi a scena aperta anche sotto l’acqua.

Margherita Coldesina

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