Oscar 2020: “Parasite” sposta il baricentro
Miglior film, Miglior regia e Miglior sceneggiatura originale. Parasite di Bong Joon-ho è riuscito nell’impresa di portare a casa – la lontana Sud Corea – tre delle statuette più ambite, quelle che dovrebbero riflettere tanto un’eccellenza qualitativa, autoriale, quanto una capacità commerciale di intercettare il gusto trasversale. Un jackpot che ha lasciato incredulo lo stesso regista, attivo da ben vent’anni e che ora, forse, verrà finalmente “scoperto” anche alle nostre latitudini, benché vada dato atto all’ultimo Locarno Film Festival di aver colto il fenomeno, ospitando Bong e premiandone l’attore feticcio, Song Kang-ho. Perché se l’Oscar come Miglior film in lingua straniera era quasi scontato, nonostante la concorrenza dell’autobiografico e magnificamente astratto Dolor y gloria di Pedro Almodóvar, non era mai successo prima che un film geograficamente lontano dalla macchina produttiva hollywoodiana conquistasse i premi più importanti in una cerimonia rigorosamente occidentocentrica. Come spiegava lo stesso regista sudcoreano durante i Golden Globes, l’auspicio è quello di arricchire la mappa del cinema con nuovi punti di vista e nuove storie, spingendo il pubblico a superare la barriera dei sottotitoli. Per uscire da quella colonizzazione dello sguardo che Hollywood ancora riesce a operare, nonostante la concorrenza sempre più pressante di nuovi mercati. Si guarda strategicamente ad Est, quindi, anche se stavolta l’opportunismo politico di cui gli Academy sono maestri sembra ben bilanciato dagli ingranaggi di una macchina perfetta, quale è Parasite. Operazione di genere che tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimo minuto e ritratto spietato del nostro mondo, Parasite non conosce barriere culturali perché racconta snodi globali, dall’impoverimento collettivo all’esigenza di costruire identità fittizie e virtuali per sopravvivere nella contemporaneità. La rivoluzione è in atto? Difficile a dirsi, ma possiamo già riconoscere alla vittoria sorprendente di Parasite il merito di aver spostato l’attenzione dalle polemiche sterili che ogni anno accompagnano la notte degli Oscar, tra hashtag e discorsi di ringraziamento che diventano comizi. Come se debba essere per forza lo spettacolo, lo show in diretta mondiale, l’unico luogo di espiazione delle nostre colpe collettive, siano esse le discriminazioni delle minoranze, l’aver votato Trump, o il rimpinzarci di serie TV su Netflix.
Quest’anno forse la vera ingiustizia meritevole di denuncia è stata l’impossibilità di premiare tutti gli incredibili film candidati. Così, se Brad Pitt ha vinto come attore non protagonista per C’era una volta a Hollywood, pure premiato per la scenografia, è davvero struggente che Quentin Tarantino con il suo film più profondo e coraggiosamente antipopolare non abbia ricevuto un premio alla regia. Così come spezza il cuore di ogni cinefilo pensare che un capolavoro sulla senilità criminale dagli echi proustiani come The Irishman di Martin Scorsese sia passato del tutto in secondo piano. O che Greta Gerwig non abbia tra le mani la statuetta per la Migliore sceneggiatura non originale – quella sì meritatissima – per la sua riscrittura a collage di Piccole donne. O, ancora, che il vero attore dell’anno, Adam Driver, colui che non è stato solo sublime in Storia di un matrimonio, ma che ha letteralmente salvato con la sua presenza una manciata di film quest’anno, sia stato battuto dal più scontato Joker di Joaquim Phoenix (benché qui il livello sia talmente alto che è quasi un delitto sindacare). Ma se questo è il prezzo da pagare per spostare il baricentro del sistema, siamo certi che anche questi formidabili autori non si dispereranno per una statuetta in meno sullo scaffale.
Francesca Monti