“Poledne (Noon)” dal rigore tecnico ed emotivo

Poledne (Noon), Compagnia Divadlo continuo.

Uno spettacolo forte, rigoroso, sia dal punto di vista tecnico, sia nella resa emotiva, quello portato in scena ieri al Teatro Foce (dopo il debutto a Verscio) dalla Compagnia Divadlo continuo (v. anche intervista sul sito). Poledne (Noon) con parole, musica e molto movimento fisico, fa riferimento ad un episodio emblematico ma in sé poco conosciuto, almeno in area italofona, della storia della dissidenza dell’Unione Sovietica. Basta cercare in internet il nome di Natalia Gorbanevskaya e non si troverà quasi nulla in italiano. Chi era costei? Una poetessa, intellettuale e attivista russa, ma la sua vita e quella dei suoi compagni cambiò in pochi minuti.

All’inizio, in una sorta di lettura degli atti giudiziari (la rappresentazione era in ceco, con traduzione nei soprattitoli) si riassume l’evento: erano in otto sulla Piazza Rossa quel 25 agosto del 1968 a manifestare pacificamente contro l’occupazione della Cecoslovacchia da parte dell’URSS. Cinque minuti e la polizia brutalmente li arrestò, li processò, li privò della libertà, anni di prigione, esilio, campi di lavoro e, tipico delle dittature, internamento in manicomio, per farli sparire e al tempo stesso renderli inoffensivi. Al centro c’è lei con il suo vestito verde che spicca tra il grigiore uniforme dei personaggi attorno. Cinque musicisti, dietro un velario, sei attori. La scenografia è composta soprattutto da sedie e tavoli continuamente spostati, variamente utilizzati, in particolare per alludere agli interrogatori; il tavolo delimita il potere; i corpi nella gestualità brusca, espressionista, l’uso quasi cinematografico delle luci, taglienti nei chiaroscuri ad esaltare la cupezza delle situazioni, la musica a creare il commento ora come un sottofondo continuo, ora lirico, ora ipnoticamente ossessivo, restituiscono la dimensione drammatica dei fatti. I suoni si ripetono, le parole pure alla ricerca della confessione e soprattutto della colpa e del pentimento. Lei venne arrestata e poi rilasciata, ma spiata e pedinata. Una porta, quella del suo appartamento, dietro ancora lei pericolosa perché diffondeva le notizie che non dovevano assolutamente trapelare all’estero. Viene arrestata di nuovo e questa volta rinchiusa per due anni in un ospedale psichiatrico sul quale si concentra buona parte della pièce. Indossa ora una veste bianca, un serpente di bicchieri materializza i farmaci che la costringono ad assumere con la falsa diagnosi di schizofrenia e che la rendono una marionetta, una larva priva di reazione. Ma ancora non si pente, ancora non confessa, arriva l’elettroshock… L’impianto coreografico ruota attorno all’aggressività dei carnefici, alle torture fisiche e psicologiche e alle vittime rese sempre più inermi e “manicomiali”. La pressione internazionale costringerà a far uscire un certo numero di dissidenti intellettuali da questi speciali ospedali psichiatrici. Con il suo “si” al pentimento alla fine esce anche lei che poi se ne andrà in Francia.  Una scena emblematica del senso della dittatura nella relazione con il popolo, è l’invenzione del personaggio con il mascherone di Brezhnev dalle caratteristiche folte sopracciglia. Il potere supremo di allora manipola su un tavolo le tradizionali bamboline matrioska, le toglie una dopo l’altra, fino alla più piccola e mima con le dita una pistola, una dopo l’altra cadono dal tavolo, scivolano sul palco, una cade anche dal palco. Gli spettatori sono coinvolti in qualità di testimoni. La scena finale, mimando una nevrotica catena di montaggio, ci mostra la mole di faldoni prodotti per raccontare e poi diffondere nel mondo la verità su un potere crudele e i suoi metodi per annientare ogni libertà, soprattutto quella più pericolosa di tutte, la libertà d’espressione: migrazione forzata, lavori forzati, esilio, campi di lavoro… Del 1972 è il libro Red Square at Noon di Natalia.

Una platea internazionale ha seguito con attenzione e applaudito la rappresentazione di Pavel Štourač, regista, e del suo collettivo, tra cui due ex studenti della scuola Dimitri, Sara Bocchini e Felix Baumann.

Manuela Camponovo

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