A “Quello che resta”: dire il dolore per vincere l’attesa

Se l’attesa dovesse avere un colore, un sapore, una forma, avrebbe senz’altro le fattezze della Calypso della giovane coreografa e danzatrice Angela Calia. È una magistrale interpretazione, quella proposta ieri sera, al Cambusateatro, del mito di Ulisse e la dea greca, nella forma di un “doppio debutto”: la riapertura ufficiale del teatro e, anche, la prima assoluta della pièce stessa, emblematicamente intitolata Quello che resta. Una figura bianca, una veste quasi sacerdotale, su sfondo nero. E quel desiderio impellente, da spettatore, che ci mostri il prima possibile il suo volto. Vogliamo conoscerla quella donna, che si staglia davanti a noi, nei primi dieci minuti di spettacolo, con un corpo che non riesce più a controllare. Un corpo che dice l’attesa, un’attesa multiforme e onirica. Che incarna e prende su di sé le movenze di un orologio immaginario: ogni battito, ogni tocco, ogni goccia che cade e segna lo scorrere del tempo, è per questa “vestale” uno spasmo, un movimento del corpo che grida mancanza, perché “ogni momento fa il suo movimento”.

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