A Raccontare l’epidemia per cantare la vita
Va aspettata una notte prima di scrivere de L’Epidemia, l’adattamento scenico proposto in questi giorni, a fronte del grande successo, in replica sul palco del Teatro Sociale di Bellinzona, a partire dal noto testo di Agota Kristóf. Una notte per lasciar decantare i pensieri, per trovare una spiegazione a determinate parole, per chiarirsi un po’ le idee, soprattutto, per essere sicuri che, in fondo, si sappia ancora distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Mai come nel racconto della Kristóf appare infatti evidente che l’epidemia, da cui il titolo del racconto, sposta i confini, elide le certezze, capovolge la scala dei valori, soprattutto quando si tratta non tanto di bacillo che si diffonde, ma di una mentalità “diffusa”, di un pensiero comune che intacca non il corpo, ma la mente. Questo porta a un sovvertimento che, è il caso di dirlo, travolge lo spettatore, portato a constatare come ogni parola e ogni racconto di bene, a fronte di un morbo terribile – reinterpretato in chiave psicologica nella pièce, ovvero “l’epidemia dei suicidi”, il diffondersi di un atteggiamento nichilista e suicidario – non abbiano la forza persuasiva che dovrebbero avere.
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