Quando l’Europa rileggeva Dante per dare un senso al proprio dolore

“Cos’ha Dante da dire oggi a noi e all’Europa? È facile che agli specialisti dica ancora molto, ma il vero problema è cogliere ciò che Dante racconta al mondo del Novecento. Dante vive soprattutto grazie all’Europa e al Novecento. Se non ci fosse stata l’Europa con i suoi grandi intellettuali forse non avremmo avuto quel Dante che abbiamo ricevuto in dono”. Introduce con queste parole la sua conferenza il prof. Corrado Bologna, Ordinario di filologia romanza all’Università di Roma Tre nonché professore all’Istituto di Studi italiani dell’USI, invitato ieri sera dalla Società Dante Alighieri di Lugano a parlare di “Dante e l’Europa”.

Dante, per lo studioso, “è poeta delle cose della vita, della paura e della morte”, basta prendere tra le mani i primi versi della Divina Commedia. “Egli– prosegue il prof. Bologna – ci parla delle parole più difficili e al contempo più ovvie dell’esistenza e i poeti del Novecento lo hanno percepito”. C’è dunque certo un’Europa in Dante (basti pensare ai tantissimi rapporti intertestuali che si possono individuare nella sua Commedia, che la inseriscono appieno nel contesto romanzo europeo) ma c’è anche “un Dante in Europa”. E non è una cosa poi tanto ovvia: Pietro Bembo, pubblicando nel 1525 a Venezia le Prose della volgar lingua, aveva sancito che il canone linguistico europeo dovesse essere Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa. Le conseguenze? Tra Cinquecento e Settecento si contano solo tre edizioni della Commedia, mentre 84 per il Canzoniere di Petrarca. “Bisogna aspettare il De Sanctis, nell’Ottocento, perché questa coscienza collettiva muti; ma anche quest’ultimo fa un’operazione alquanto strana sulla Commedia: la concepisce come struttura, un insieme di quadri e figure”. I grandi scopritori dell’autenticità e bellezza di Dante saranno così solo i grandi filosofi e poeti del Novecento.

Benedetto Croce, ad esempio, che però, secondo il suo gusto estetico, riduce la poesia di Dante a quella della Commedia, dimenticando quella giovanile. Inoltre, identifica la Commedia come un “romanzo teologico”, interrotto di tanto in tanto da “pura lirica”. “Dante, secondo questa concezione, nota il professore, non è né poeta ma neppure filosofo”. Bisognerà attendere Giovanni Gentile, per sentirsi dire che, invece, “Dante è la filosofia italiana”, sovvertendo la percezione crociana. Il primo libro di filosofia scritto in volgare? La Commedia, secondo Gentile. Un’intuizione che in realtà era già presente in Pascoli, quando vedeva nell’opera dantesca “una filosofia che si esprime in poesia e una poesia che si esprime in pensiero filosofico”. Pascoli che sarà autore di ben tre contributi di commento a Dante: Minerva oscura (1898); Sotto il velame (1900); La mirabile visione (1902).

Ma ci sono accostamenti a Dante meno pacifici: alcuni autori l’hanno incontrato in situazioni di estremo dolore, come ad esempio Osip Ėmil’evič Mandel’štam, condannato al gulag. Dante per lui è compagno di vita, di morte, di paura. Il suo pensiero è condensato nel Discorso su Dante, “il più bello che si possa leggere come contributo da ambito non filologico”, secondo  il prof. Bologna. Dante, così, “attraversa tutte le realtà più terribili del Novecento, è un poeta delle situazioni estreme, radicale, che riesce cioè, andando alla radice delle cose, a smuovere le zolle e a far emergere parti della realtà nuove”. I testi di Mandel’štam recano a tal punto segno di Dante e della sua influenza che, al momento di tradurre in russo la Divina Commedia, in alcuni punti si useranno proprio le frasi di Mandel’štam rielaborate su echi danteschi. Il cerchio si chiude.

“In Dante bisogna saper cercare anche la declinazione delle parole della vita quotidiana. Lo scopriamo sulla bocca di chi è felice e disperato, persino sulle labbra dei condannati a morte”. Così anche nel caso di Ezra Pound, catturato dalle forze armate americane per aver appoggiato il fascismo. Eppure le sue intuizioni su Dante furono geniali; scoprì, ad esempio, come notò un’altra grande studiosa come Maria Corti, l’idea dei campi semantici mobili. A Pound è vicino Eliot. Entrambi ribadiscono che la filosofia è essenziale alla struttura della poesia, essenziale alla bellezza poetica delle parti. La filosofia è l’essenza della poesia. Riportano così equilibrio nell’ermeneutica della Commedia.

E che dire, per parlare sempre di situazioni precarie, della più nota poesia della letteratura italiana “Soldati”? Inutile ricordarla: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Non è forse una ripresa di Inferno III, 112-114: “Come d’autunno si levano le foglie”? In Dante le anime ammettono la loro colpa e si consegnano al loro destino di dannazione; in Ungaretti i soldati invece patiscono per una guerra che forse non hanno mai neanche voluto. Entrambi, comunque, simboleggiati da una precaria foglia mossa dal vento.

Ma non si può che terminare con Primo Levi, nella cui opera, accanto a Dante, curiosamente è anche profondamente presente Manzoni. Quando lo scrittore afferma che “il carnefice è responsabile non solo delle pene inflitte ma anche di quelle inflitte ad altre vittime” riprende un’idea manzoniana che però è già dantesca; è – come noterà Guido Piovene – la tremenda forza fecondatrice del male: l’istigatore al male assume su di se anche la colpa dei suoi succubi. Non potrebbe esserci discorso più moderno, in tempi di tanta violenza.

“E proprio per rispondere alla precarietà, gli autori citati hanno necessità di Dante, sentono che senza Dante la vita non ha più senso”, conclude il prof. Bologna, lasciando la platea sicuramente assorta e anche un po’ commossa.

Laura Quadri

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