Sulle tracce di John Fante

L’ho fatto. Sì, l’ho fatto. A ottant’anni dalla pubblicazione di Aspetta primavera, Bandini, romanzo d’esordio dell’autunno 1938, ho inseguito per l’Abruzzo il fantasma di John Fante, avventurandomi su una strada di curve e buche che mi ha portato nel fascino antico di Casoli, nella bellezza linda di Gessopalena e infine proprio lì, nella gravezza sonnacchiosa di Torricella Peligna: luogo di radici per lo scrittore nato a Denver da una famiglia di origini italiane; di ricordi, forse di incubi. Ho chiesto alla polvere. All’asfalto, ai muri. E a un testo ritrovato dopo la sua morte: 1933 Was a Bad Year (edizione italiana di Fazi, Un anno terribile). Ho attraversato realmente i posti che il protagonista dell’opera, Dominic Molise, solamente immagina di visitare con la nonna Bettina: «Per un istante pensai di essere a Torricella Peligna. Vidi il paese dietro di lei, le strade di sassi, le case di pietra che cadevano a pezzi, la chiesa con le vecchie che salivano la scalinata». L’ho salita davvero e, dentro San Giacomo, ho pensato al cattolicesimo controverso, al sarcasmo religioso con cui Fante strapazza i suoi personaggi. Ho passeggiato per il corso e nella piazza. Ho incontrato un Abruzzo forte e gentile. Contrariamente a Dominic, che riflette: «Gli abruzzesi. Non c’è da meravigliarsi che siano rozzi e che abbiano un caratteraccio. Non hanno altro che rocce, qualche capra e niente luce elettrica».

Una vecchia indaffarata sulla salsa di pomodoro mi ha indicato una casa familiare. Un alpino mi ha raccontato la storia dell’antenato bandito, Domenico Fante detto Mingo: malfattore di buon cuore che si nascondeva nei boschi e non fu mai tradito dai paesani appunto perché era un ladro gentiluomo, una sorta di Robin Hood che rubava ai ricchi per dare ai poveri. Sono tre lustri appena che Torricella Peligna apprezza il suo figlio autore. Prima neppure sapeva che un Fante di casa si era fatto un nome da scrittore negli Stati Uniti. Finché un giorno sono arrivati nel borgo alcuni turisti americani a fare strane domande. Così è avvenuta la scoperta. Nei libri di John, tuttavia, si trova memoria e a volte rimpianto per quei luoghi, per quella gente. Come nel nucleo familiare di Dominic Molise, con la nonna che vorrebbe gridare al Colorado: «Liberatemi da questa schiavitù. Mettetemi in una cassa e rispeditemi a Torricella Peligna!». Dominic (dunque Fante) sa la ragione. «Conoscevo bene il peso che aveva sull’anima, e mi faceva pena. Era sola, le sue radici erano sospese in una terra straniera. Non avrebbe voluto venire in America, ma mio nonno non le aveva dato possibilità di scelta. C’era miseria anche in Abruzzo, ma era più dolce, condivisa da tutti come pane che si passa di mano in mano. Anche alla morte partecipavano tutti, e così al dolore, e alla prosperità, il villaggio di Torricella Peligna era come un solo essere umano. Mia nonna era come un dito strappato dal corpo, e non c’era niente nella nuova esistenza che avrebbe potuto mitigare la sua desolazione. Era come tutti gli altri che erano venuti da quella parte d’Italia. Alcuni se la passavano meglio, altri erano benestanti, ma non c’era più gioia nella loro vita, e il nuovo paese era un posto solitario dove O Sole Mio e Torna a Sorrento erano canzoni che spezzavano il cuore». Le radici si trovano tutte, nelle storie di John Fante. Nei nomi e nei cognomi, nei mestieri e nella fame, nell’attaccamento alle usanze e ai vincoli del cristianesimo. Perfino nel campanilismo. La mamma di Molise «era nata a Chicago, ma era di origine italiana e in realtà era contadina come la nonna, segnata anche lei dalla solitudine, straniera in un modo che non era possibile descrivere, non era italiana e ancora meno americana, una fragile disadattata. La sua famiglia era di Potenza». Una città «piena, a quanto si diceva, di rossi». Ecco, «secondo nonna Bettina, i potentini, subito dopo gli americani, erano i più ridicoli del mondo. Non era mai stata a Potenza a vedere con i propri occhi, ma per tutta la vita aveva sentito delle strane storie sul loro conto. Dal momento che gli abruzzesi avevano bisogno di avere un luogo da giudicare inferiore al loro, consideravano Potenza con lo stesso disprezzo che i calabresi avevano per i siciliani, proprio come i napoletani ridicoleggiavano tutto quello che era a sud di Napoli, e i romani guardavano dall’alto in basso i napoletani, mentre i fiorentini non davano peso ai romani. I potentini erano per gli abruzzesi come una specie di fonte di barzellette, come se vivessero in catapecchie e fossero tutti nani». Naturalmente, «gli abitanti di Potenza a loro volta disprezzavano gli abruzzesi». Ho pensato a queste dispute locali, scendendo da Torricella Peligna. Ho meditato sull’italianità ancora fragile, in patria e all’estero; sulle divisioni regionalistiche, le diversità territoriali e le somiglianze, le pretese superiorità. Aspetta primavera, Bandini.

Leon Bertoletti

 

n/a