Talita Kum: quando il teatro di figura racconta la sacralità della vita
I premi che lo spettacolo Talita Kum, per la regia di Marco Ferro e messo in scena per il pubblico ticinese ieri sera al Cambusa Teatro di Locarno, ha ricevuto – cinque premi nazionali e internazionali – sono premi a svariate cose, in primis: a una lezione di profonda umanità, ma anche, sicuramente, a una delle più brillanti riflessioni sul teatro di figura stesso che negli ultimi anni sia mai stata portata sui palcoscenici. Talita Kum: una frase, tratta dal Vangelo di Marco e pronunciata da Gesù nel momento che egli resuscita una bambina morta prematuramente (e giovane donna è anche l’attrice Valeria Sacco) – che da affermazione perentoria – sorgi, torna alla vita! – si trasforma però, nell’omonimo spettacolo della compagnia Riserva Canini, in un’interrogazione: chi dà vita a chi? E, soprattutto – ci sembra – cosa significa esattamente “dare la vita”? Lo spettacolo è una ripresa simbolica dello stesso gesto compiuto da Gesù che “porge” la mano alla bambina risuscitata per farla risalire dal letto; analogamente, ritroviamo sul palco un’attrice estremamente consapevole della delicatezza e dell’importanza del ruolo che le è affidato: quello di ridare vita – talita kum, appunto – a ciò che vita non ha, partecipando in un certo senso di un sacrale atto di creazione. Tante le vie che potrebbero essere percorse, ma unica e originale quella che la Compagnia Riserva Canini sceglie per sé e per il suo pubblico: far credere allo spettatore che sia la marionetta stessa a ridare vita all’uomo. Si potrebbe forse immaginare un modo migliore per sottolineare che la marionetta non è solo strumento ma è dotata di una propria dignità? E allora ecco danzare, mano nella mano, proprio marionetta e attore-fantoccio, in una reiterazione continua, commovente, di quel gesto primigenio di Gesù con la bambina, dove però è la marionetta a vestire le veci dell’Uomo-Dio. Ciò che non ha vita cerca di dare vita a chi a sua volta vita non ha. Un’interrogazione profonda sul senso stesso dell’esistere, forse, davanti alla pluralità delle interpretazioni cui potrebbe soggiacere lo spettacolo (una cinquantina di minuti di pura commozione): io e te, cosa ci mette e, soprattutto, ci mantiene in vita? Ma quale vita, se sei una marionetta? Uno spettacolo sul senso stesso del teatro di figura, quello di Riserva Canini, che si trasforma in una favola moderna e in un viaggio che rende ciascuno più consapevoli, alla fine, della propria unicità. La marionetta, che non può certo fare uso dei suoi sensi per relazionarsi con il mondo – fatta di legno e stoffa – si adopera, in una drammaturgia di grande poesia, a guidare l’umano in un percorso iniziatico di riscoperta di se, attraverso odori, suoni, melodie, sapori, nella riconquista – anche faticosa, fatta di duri fallimenti (l’afflosciarsi improvviso della sagoma umana, che lascia con il fiato sospeso) – della propria umanità perduta o mai posseduta. E, tra i tanti gesti, quello di porgere all’uomo una mela da addentare, il frutto che da sempre rappresenta “la conoscenza del bene e del male”. Entra in gioco, quasi in punta di piedi, la questione – trasversale alla teologia e alla filosofia ma anche delle neuroscienze – della consapevolezza di sé stessi. Ma di cosa deve davvero diventare consapevole l’uomo in tutto questo suo camminare? Qual è l’obiettivo della marionetta (guidata in modo strabiliante e, diremmo, impercettibile a occhio umano), che si affanna per vedere brillare un barlume di luce negli occhi dell’umano inanime che gli è affidato? Forse lo scopo di tutto, più che “dare la vita” è dimostrare le conseguenze stesse di questo gesto: chi ha più vita alla fine? La marionetta che, certo, si accascia alla fine inanime lei stessa sul pavimento perché ha “compiuto” il suo percorso, raggiunto il suo obiettivo ma ha davvero “donato” la vita o l’umano che, ora vivo, l’ha però “ricevuta”? «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». “Le marionette senza il loro pubblico non esistono” commenta l’attrice alla fine dello spettacolo. Una frase che è la chiave del mistero: nessuno esiste senza che qualcuno ci abbia dato la vita.
Laura Quadri