«La dimensione nazionale, al di là di qualche retorica, si ferma al San Gottardo»

Il 30° Laboratorio Internazionale del Teatro delle Radici si è aperto ieri, 18 agosto e durerà fino al 2 settembre; la rassegna di presentazioni per il pubblico si svolgerà invece dal 24 al 31 agosto. Di questo e di altro, le problematiche ad esempio legate alle sovvenzioni di Pro Helvetia, abbiamo parlato con la direttrice del TdR, Cristina Castrillo.

Trent’anni, una data importante: come, perché è nato il Laboratorio?
«Come tutte le nostre iniziative non è nato perché io una mattina mi sono svegliata con l’idea d’inventarmi di sana pianta un Laboratorio Internazionale perché poteva sembrare importante… No. Viaggiando, durante le tournée, gente che veniva ai nostri spettacoli mi rivolgeva sempre la stessa domanda: come possiamo fare per imparare da voi? Anche se gli spettacoli che rappresentavo erano affiancati da laboratori di qualche giorno, alcune ore, non è la stessa cosa rispetto a due settimane intense. Mi arrivavano dunque lettere per posta normale o fax e alla fine…. Il Laboratorio è nato da questa esigenza e resta una scuola di ricerca e formazione che, come negli ultimi anni, contiene uno specifico tema centrale, che obbliga anche me a cercare altre vie possibili, a pormi ancora domande a cui non è detto che trovi sempre delle risposte, ma non importa. Un metodo di lavoro non è infallibile, non è una ricetta, ma al di là delle specifiche considerazioni tecniche è un ambito che a molte persone fa bene».

Il tema di quest’anno è “I Maestri”, perché questa scelta?
«Ho una lista di temi, a dipendenza del mio interesse immediato o degli ospiti che mi piacerebbe riuscire ad avere e può essere complicatissimo, ma si tratta di persone vicine al nostro lavoro da anni e che quindi fanno di tutto per esserci. Per il 30° ho scelto questo tema, pensando che il lavoro pedagogico è sempre stato determinante anche nella costruzione dei miei spettacoli. Non posso separarlo da quella che si chiama “regia”. Questo aspetto lo approfondisco con gli attori anche quando sto tentando di mettere in piedi uno spettacolo. Arrivando a quel traguardo e sapendo quanto valore ha per me la parola “maestri”, pur essendo io un’autodidatta, l’ho scelta facendo arrivare a Lugano ospiti che sono parte della storia teatrale, con sfaccettature diverse. Forse l’unica persona che non ha fatto direttamente teatro o come regista o come attrice è la cinese Zhang-Connie Ruonan (30/8, ore 18) ma ha lavorato nell’opera di Shangai e parlerà di questa arte ancestrale e dei maestri che, in ambito orientale, rappresentano figure intoccabili». 

Le altre sono tutte persone del mestiere, tutte donne e “maestri”, a modo loro?
«Certo. Maria Porter della Long Island University, New York (29/8, ore 18.30) è una specialista del Metodo Suzuki che ha imparato e seguito per anni in Giappone. Elisabeth de Roza (25 agosto, ore 18.30), vive a Singapore e viene pure lei da una formazione ancestrale, mi aveva chiesto di farle la regia di uno spettacolo, ma in quel momento avevo altri progetti e non ci sono riuscita, me ne pentirò per tutta la vita… ma mi farà piacere rivederla. Julia Varley (27 agosto, ore 18.30, una icona dell’Odin Teatret, che non farà la presentazione alla sala del TdR ma al Teatro Foce: 17 minuti della vita di Mr. Peanut), per la prima volta in Ticino, fa parte della rivoluzione del teatro da Grotowski in poi… Tutte persone che hanno un rapporto con il teatro affine al mio, note ma aliene dal divismo. Ancora: la ticinese Nunzia Tirelli (26/8, ore 18.30) per il lavoro che sta facendo su Laban al Monte Verità. Infine Alexandra Escobar Aillon (30/8, ore 19) proviene da un’altra tradizione che purtroppo l’Europa non conosce come dovrebbe, quella dei grandi gruppi teatrali dell’America Latina, fa parte de La Candelaria di Bogotà, Colombia… ed è rocambolesco sapere come arriva qui…».

Perché rocambolesco?
«C’è un progetto specifico di Pro Helvetia, Coincidenze, improntato proprio ai contatti e scambi con l’America latina al quale lei ha fatto richiesta di sostegno per partecipare al nostro Laboratorio, avrebbe voluto restare da noi anche un mese per continuare a lavorare con i miei attori e per fare una ricerca sul rapporto tra il suo teatro e il nostro; l’intenzione poi era di invitarci in Colombia proprio come scambio culturale. Ma ha ottenuto un rifiuto con la motivazione che “sebbene abbia quarant’anni di esperienza e un alto livello internazionale, Il Teatro delle Radici non è rilevante dal punto di vista nazionale”. Viene da domandarmi: in quale altra parte della Svizzera c’è un Laboratorio come il nostro?».

Piuttosto paradossale la motivazione, tenendo conto che tu hai ricevuto nel 2014 il Premio del Teatro, un riconoscimento federale che ti consacrava anche sul piano nazionale o almeno questo si poteva pensare…
«Si poteva pensare, sì, ma forse non è così… Ma per me non è questo il problema, anzi gli do ragione: è vero, non siamo di rilevanza nazionale, ho girato il Mondo, ma non frequento la Svizzera interna, ho provato con tutte le forze e in tutti i modi, ma non ho mai ricevuto risposte e ho avuto pochi attori presenti al Laboratorio internazionale che venivano da oltre San Gottardo. Quello che metto in discussione sono i parametri, i criteri sui quali Pro Helvetia si basa per prendere le sue decisioni, perché se l’unico parametro è quello vuol dire che non rimane un granché per avvalorare il nostro operato, negli anni, né gli spettacoli, né la continuità, neppure il nostro permanente contatto con la stessa America latina».

Ma tra i compiti di Pro Helvetia c’è sempre stata la promozione della cultura svizzera all’estero, attraverso le tournée teatrali si esporta la conoscenza, in questo caso di Lugano e della Svizzera italiana.
«Molti criteri sono stati cambiati ultimamente, come la base del cachet offerto, e la diversità di sedi per un viaggio. Ma Pro Helvetia, decidendo sulla base dell’onorario attribuito per la partecipazione ad un Festival o ad un incontro teatrale, o determinando la quantità di rappresentazioni, esprime una preferenza pericolosa. Quella di privilegiare una tipologia di festival, probabilmente più conosciuta e famosa ma gestita come un supermarket, dove si arriva, si fa il proprio spettacolo, ma non si può vedere nulla del lavoro dei colleghi, non c’è la possibilità di scambio, di conoscenza, rinunciando così a un’infinità di incontri e festival che, sebbene non hanno una visibilità mondiale sono comunque un modo per propiziare sinergie, incontri, nuove maniere di imparare e partecipare».

Non viene considerata la scelta culturale di partecipare ad un festival piuttosto che ad un altro?
«No. La mia cultura teatrale mi spinge di più verso Festival che possono contare su un budget ridotto e che costano sforzi incredibili per realizzarli. Come quello di Brasilia, per il quale mi è stato negato il sostegno, ma lì si vedono gli altri spettacoli, si parla con i colleghi, c’è una trasmissione di valori culturali, anche se si è malpagati e non puoi fare tre rappresentazioni come richiede Pro Helvetia che mette in rapporto il costo del biglietto areo con il numero di repliche. Ma questo tipo di incontri sono utili al nostro lavoro, aiutano anche la possibilità di circolazione. Infatti, l’invito in Cina dell’anno scorso è pervenuto così, come il prossimo appuntamento a Francoforte, da parte di una persona che mi aveva visto in Ecuador e che adesso vive in Germania, o gli stessi allievi che si iscrivono al Laboratorio. Pro Helvetia ci ha sempre dato una mano, non posso dire che non l’abbia fatto, ma ho l’impressione che adesso tutto si stia restringendo e non si tenga conto neppure della situazione reale di questo Cantone, non ci può essere una politica uguale per le regioni tedescofone, francofone e per il Cantone e mezzo che parla italiano. La dimensione nazionale, al di là di tutta la retorica, si ferma al San Gottardo».

                                                                                                                                                                                                                                 Manuela Camponovo

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