Un convegno all’USI e all’Accademia di architettura di Mendrisio ricorda Leonardo da Vinci a cinque secoli dalla morte

Cinque secoli dalla morte di Leonardo da Vinci e un Convegno che, per l’occasione, colmi una lacuna importante: tra i numerosi studi dedicati negli ultimi anni a Leonardo da Vinci e alla sua ricezione visiva e letteraria, mancava infatti ancora una riflessione comparata e approfondita sulla fortuna che il grande artista del Rinascimento ha avuto nel corso del Novecento, in assoluto il secolo che ha dedicato più attenzione all’opera sua e della sua cerchia. Un vuoto che l’Accademia di Architettura di Mendrisio, nella figura della prof.ssa Carla Mazzarelli e in collaborazione con l’Istituto di Studi italiani dell’USI ha voluto colmare, chiamando a partecipare al Convegno – tenutosi tra ieri e venerdì – storici dell’arte e dell’architettura ma anche storici della letteratura, della scienza e della medicina, che in una prospettiva volutamente interdisciplinare hanno indagato i diversi campi in cui si è espressa la ricezione di Leonardo nel XX secolo.

Ereditato, manipolato, reinventato: il Leonardo del Novecento è davvero una figura dai molteplici volti, a partire da quello che ha voluto illustrare la prof.ssa Elena Canadelli dell’Università degli Studi di Padova nella prima relazione della sessione pomeridiana di ieri. Con un intervento dal titolo “Nel segno di Leonardo. Dalla Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni Italiane (1939) al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica di Milano (1953)”, la studiosa ha ripercorso le tappe che hanno portato la prima mostra milanese dedicata al genio leonardiano a diventare la base, nel dopoguerra, per il Museo nazionale della Scienza e della Tecnica. Nel farlo, Canadelli annuncia una “prospettiva nuova, diversa rispetto a quella della storia dell’arte”, che ha preceduto la mattinata di incontri e relazioni, tenutesi nell’aula A11 del campus luganese. E infatti l’attenzione della studiosa va a questa prima mostra novecentesca, che dà preziose indicazioni sulla “ricezione di Leonardo a Milano” e “non solo negli anni Trenta”, perché è l’esempio lampante di una “rivendicazione della figura di Leonardo da Vinci come patrimonio culturale”. L’allestimento della mostra, tenutasi dal 9 maggio al 22 ottobre 1939, si inserisce nel dibattito museografico di quegli anni, diviso tra propaganda fascista e autarchia. In particolare, la mostra diventa esempio di come un patrimonio storico-artistico possa prestarsi a diversi usi. Adeguando l’allestimento del materiale all’idea fascista che la cultura dovesse essere adeguata al popolo, anche la figura di Leonardo – oltre che diventare, secondo la propaganda del tempo, genio italico, affiancato ai “grandi italiani” quasi fossero stati suoi contemporanei – viene rivista: Leonardo è troppo teorico, speculatore, bisogna dunque farlo tecnico, realizzatore. Diventa così una figura che divide: chi lo vuole più scienziato, chi un tecnico. Proprio propendendo per quest’ultima interpretazione, la mostra milanese esporrà i modelli leonardiani. La mostra conoscerà poi una fase newyorkese e verrà portata fino a Tokyo, ma nel frattempo, in sede milanese, nasce il progetto di un Museo della Scienza e della Tecnica nazionale. Quindi la discussione si protrae: come presentare Leonardo? Scienziato o artista? Figure estremamente eclettiche lavorano a questa riproposizione di Leonardo tecnico e scienziato fino a dar vita, effettivamente, al Museo, che prenderà il nome dello scienziato. “Una mostra, dunque, che spiega l’uso dei miti anche in contesti molto diversi”, conclude la studiosa.

Alcuni dei partecipanti al convegno durante le relazioni serali.

La relazione seguente, della dott.ssa Alberta Fasano sorprende. Di questa mostra abbiamo infatti ancora oggi una copia della guida postillata da Gadda. Le annotazioni prese su di essa dimostrano che Gadda deve aver visitato la mostra per ben due volte. Negli articoli che svilupperà successivamente sulla mostra, Gadda proporrà un “cammino ragionato e ragionante che si sviluppa su due direttrici, quella spaziale, e quella ideale; un cammino fisico e spirituale, dove il termine è da intendersi nel senso di un’iniziazione alla conoscenza, nella tradizione della Commedia dantesca. Per descrivere questo cammino, Gadda recupera dei topoi, come quello dello sgomento e della confusione di colui che deve affrontare un compito troppo superiore alle sue forze o quello della necessità di liberarsi da ogni conoscenza pregressa per poter intraprendere il cammino”.

Per avvicinare Leonardo, secondo Gadda, vi è cioè il bisogno di dismettere tutti i modi usuali dell’apprendimento, contro l’annichilimento delle facoltà intellettive causate invece dalla manualistica. Gadda guardava con orrore a questo processo di banalizzazione.

Egli, piuttosto, indugia sul termine di “semplificazione”, intesa come organizzazione degli elementi di un sistema. È così che considera la mostra come sistema chiuso, controllabile e quindi ordinabile che persegue come fine ultimo quello didattico. Un cammino, appunto, fisico tra le varie sale ma anche intellettuale. Gadda offre un commento a tutto tondo, con animo da ingegnere commenta le opere di natura tecnica, mentre con animo da letterato commenta lo stile e le note leonardesche e individua, quale proprium leonardesco, “l’adesione all’oggetto, al fatto reale”.

La mostra è un insieme di immagini, disegni, testi che colpiscono Gadda e entrano nella sua “galleria interiore”, come dimostrano gli articoli che ne scaturiranno. Solo all’arte pittorica leonardesca Gadda non dedica parte. Si limita ad accenni ma la colloca in una cornice storica, atta a significare le difficoltà pratiche incontrate da Leonardo nelle realizzazioni. Tuttavia, la conosce bene e la apprezza, al punto da riutilizzarla nella narrazione. Pensiamo al simbolismo nascosto dietro a “S. Anna, la vergine e il bambino con l’agnellino”, che Leonardo dipinge tra il 1510 e il 1513; la tela mette in atto un simbolismo incentrato sulla figura della madre, molto importante per Gadda, poiché “nel gioco delle significazioni la madre reca in sé necessarie speranze”, come avrà modo di spiegare.

Quindi Gadda – sempre attenendosi alla disposizione delle sale nella mostra – si concentra sulle copie leonardesche che si sono succedute nel tempo, scongiurando la rottura con la tradizione e premia chi ha saputo innovare il passato partendo dalla tradizione. “Utilizza – spiega la Fasano – l’esempio della colata lavica: gli strati superiori rigurgitano su quelli inferiori. Si tratta di tesaurizzare il passato, l’intelletto di consumate civiltà”. Così, per Gadda, “i maestri lombardi fanno di tutto per avvicinarsi al Maestro, ma dal Vinci li separerà sempre una distanza”; per contro Gadda vede più maestria nella scuola bresciana. Molto probabilmente visita una mostra che è dedicata ai maestri bresciani negli stessi anni in cui attendeva alla stesura del suo articolo di commento alla mostra leonardesca, da qui la facilità nel fare confronti, tra questa e la “pitturella lombarda”.

Leonardo da Vinci, Sant’Anna, la Madonna con il bambino (1510-1513).

A Corrado Bologna, invece, nel suo mirabile intervento, di ricordare come “spesso le curve della vita hanno il rischio di diventare una curva della morte. Leonardo non riponeva illimitata fiducia nella meccanica ma insisteva sulla meditazione della vita delle forme in movimento”. Dietro lo scorrere dell’acqua – così la critica – Leonardo aveva individuato un’idea ontologica e gnoseologica. E così il suo pensiero: mai fermo, mai irrigidito ma attraversabile da tante correnti come il fluire delle acque. Ne è la dimostrazione, quella celeberrima frase che interrompe una pagina di studi geometrici: “eccetera perché la minestra si fredda”. “Qui – nota il prof. Bologna in conclusione alla sua prolusione – si riduce a sineddoche l’impossibilità dell’essere umano di vincere il tempo, è l’assoggettarsi alla fragilità del suo essere creatura. D’improvviso la nuda vita fa irruzione e lo chiama all’ordine; nella felicità mentale degli artisti – come avrebbe detto Maria Corti – prende corpo l’entropia del disordine. L’esteriorità è interiorizzata. Qui brilla lo scarto tra il fluire ondoso della mente e la drastica terribile riduzione al provvisorio, che l’etcetera accenna”. Il professore conclude con un quadro di Claesz, “Natura morta con granchio”, esemplare del barocco fiammingo: “In questa tela, come in Leonardo, lo spazio finito incorpora quello infinito, che, come nel tempo messianico, è sempre a venire, indistinto, esiste nella potenzialità dell’istante in cui lo si pensa e lo si crea”.

Pieter Claesz, Natura morta con granchio, 1644

Quindi, nell’intervento della dott.ssa Laura Accerboni, la figura di Leonardo Sinisgalli, che aveva eletto Leonardo a suo “nume tutelare”, un interesse per Leonardo, come ricorda il prof. Prandi introducendo l’intervento, che “nasce forse negli anni milanesi, durante la formazione scientifica nel gruppo di Fermi e forse anche dopo la visita alla Mostra del ’39”.  Secondo Sinisgalli, “il poeta non può escludere nulla da ciò che lo circonda, al punto da sembrare indifferente. Ma la morte del poeta “cacciatore” porta in se anche la traccia della vittima. Il mistero della morte della caccia crea fratellanza tra tutte le cose, il cacciatore-poeta non può stare senza la “mancanza del lato rotto”. È la “sostanza bestiale” del poeta; in lui l’aggressore e la vittima al contempo. È dunque uno strano equilibrio quello che viene a crearsi”, spiega Accerboni ripercorrendo i nodi salienti della particolare poetica di Sinisgalli, per poi ricordare come Sinisgalli si fosse opposto all’intepretazione di Valery su Leonardo, che vedeva nella sregolatezza il metodo leonardiano. Valery, per Sinisgalli, “guardò ai risultati senza guardare alle disfatte”. Per Sinisgalli, invece, la virtù dell’uomo sta anche nel fabbricare errori, la perfezione deve spezzarsi in nome della “fertilità dell’errore”. Solo con un contorno rotto è possibile creare. Secondo questo principio, che è anche leonardiano, in poesia Sinsigalli dirà che “devo vedere crescere la frase come cresce l’unghia ai vitelli”.

Al termine degli interventi, il coronamento di tutto il Convegno: il poeta Fabio Pusterla, in dialogo con il prof. Stefano Prandi, ha commentato una sezione del suo “Cenere, o terra” (2018), quella più “leonardesca” a detta dell’autore, intitolata “Confuscazioni”. Il prof. Prandi ha da subito rilevato nell’opera di Pusterla, alcune costanti o “cellule concettuali” molto importanti, tra cui proprio l’acqua, tema anche delle precedenti relazioni. Proprio come in Leonardo, per il quale l’acqua poteva essere “tosculente o salutifera, leva o ponte”, anche per Pusterla l’aqua è “enigma tra moto e stasi”. In effetti, spiega Pusterla, “mi sono reso conto che, nel tempo, avevo scritto molti dei miei testi attorno agli antichi quattro elementi. Ma la sezione dedicata all’acqua, “Confuscazioni”, nasce per la concomitanza di diverse circostanze. Penso a quell’amico che una volta mi consigliò di visitare un luogo che si chiamava “La casa del custode delle acque”, lungo l’Adda. Ma anche all’aver reincontrato, lungo il mio percorso, il “Trattato delle acque” di Leonardo. Leggendo, ho avuto subito la sensazione che Leonardo appartenga a quella famiglia di scrittori che ha uno stile di una potenza straordinaria. Non molti ce l’hanno, ma penso, tra le personalità a noi più vicine, a Carlo Cattaneo, dotato di uno stile a volte poderoso. Tuttavia, sia Leonardo che Cattaneo appartengono a quegli scrittori che non vogliono fare letteratura stricto sensu ma lo fanno, loro malgrado, parlando di altro. Da ultimo, come fonte d’ispirazione delle mie “Confuscazioni” citerei anche Yves Bonnefoy. Dopodiché ho lasciato correre la fantasia; sono arrivato ad immaginarmi una storia in cui il “custode delle acque”, generatore di ordine, fosse “sparito” nel nulla..”.

A questo punto il prof. Prandi sposta l’attenzione alla lingua di Pusterla: ci sono scrittori che hanno la capacità di materializzare il pensiero attraverso la sintassi, come Machiavelli, che interpone scatti avversativi che colgono il lettore di sorpresa. Leonardo era uno di quelli: metteva in atto dei “vortici sintattici” che in qualche modo inveravano i vortici incontenibili dell’acqua. E una delle figure più classiche legate all’acqua, statutarie della letteratura, è “lo specchio d’acqua di Narciso, con cui il Novecento ha un rapporto critico”. Prandi crede di poter riscontrare qualcosa che gli si avvicina anche nella poesia di Pusterla: un dialogo tra le acque e il loro osservatore, che dà luogo ad una narrazione.

“Effettivamente – conferma Pusterla – si potrebbe anche leggere la sezione di poesie in questione come la storia di un io, tenendo però conto che l’io del secondo Novecento è molto più debole, non p più tanto chiaro a chi appartenga la voce di chi parla” E poi rivela: “È verosimile che, in questa narrazione, sia andato a toccare qualcosa della mia esistenza quotidiana, un aspetto di proiezione di me in una storia simbolica”. Uno degli ultimi interrogativi posti, a conclusione, dal prof. Prandi, è capitale: “Quando pensiamo all’acqua oggi pensiamo anche a dei corpi senza vita, a quel campo santo che è diventato il Mediterraneo. Così come la prosa di Leonardo spesso si risolve in narrazione e in maniera imprevista si trasforma in altro, così anche la tua poesia, mi sembra, assume a tratti una valenza etico-politica…”.

“Sì, certo”, conferma il poeta, “tanto quanto Leonardo non posso sfuggire alla contingenza delle cose e anche a un discorso politico”. Parole che riconfermano che la poesia è una voce alla quale non potremo mai rinunciare.

Laura Quadri

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