Un documentario racconta Mario Botta e la sua ricerca del sacro

Il Locarno Festival non è ancora iniziato, ma il documentario dedicato all’architetto di Mendrisio dal titolo “Mario Botta. Oltre lo spazio”, ci ha già immersi nel tipico clima della rassegna. In un GranRex al completo e con diversi invitati d’eccezione (dal vescovo al sindaco di Lugano passando per alcuni deputati e personaggi noti della politica e dell’economia locale), abbiamo visto l’anteprima del film realizzato dalle giornaliste Loretta Dalpozzo e Michèle Volonté.

Chiesa di Mogno realizzata da Mario Botta

Una produzione introdotta dalle parole del presidente del Locarno Festival Marco Solari il quale ha dapprima sottolineato la dualità (ticinese e internazionale) di Botta e ha poi snocciolato alcuni fatti personali legati alla loro amicizia. Una conoscenza che negli anni ha portato, per esempio, alla creazione della tenda per il 70° della Confederazione («disegnata per la prima volta su un tovagliolo di carta»).
A portare i saluti di rito anche Luca Pedrotti (UBS) e Rudy Chiappini (curatore della mostra dedicata all’architetto che si può visitare a Casa Rusca).

Il documentario indaga il rapporto di Botta con gli spazi sacri: chiese, moschee e sinagoghe. Un rapporto, che per sua ammissione, è molto particolare e sentito dall’architetto. «Costruire significa trasformare una realtà. L’architettura non è solo mura e funzionalità, ma risponde anche a un’esigenza più profonda e cioè quella di soddisfare un bisogno comune, del vivere collettivo: la ricerca del sacro» ha spiegato ieri sera.

Le due registe hanno quindi ricordato che il progetto è partito esattamente un anno fa, nel luglio del 2017, quando davanti a una tazza di caffè hanno spiegato a Botta la loro intenzione. Lui ha risposto con entusiasmo, offrendo loro nove mesi della propria vita.

Camera in spalla e voglia di capire meglio l’uomo e l’architetto, Dalpozzo e Volonté l’hanno seguito in giro per il mondo, soprattutto in Oriente. Laddove cioè ci sono (o ci sono state) costruzioni dedicate al sacro: una chiesa in Corea, la famosa Sinagoga di Gerusalemme e il progetto di una moschea in Cina. E sono proprio queste le parti del documentario più riuscite. Quelle che aiutano a entrare nello spirito di Botta e nel suo lavoro. I contatti con i committenti, quelli con l’artista italiano che completa gli edifici sacri con disegni o sculture e quelli con il costruttore di modellini.

È in questi momenti che si riesce meglio a comprendere la sua grande passione e, di conseguenza, il suo interesse per una dimensione impalpabile, ma molto presente, come quella spirituale.

Meno riuscita, perché enfatizzata, ci è sembrata la parte dedicata alla famiglia. Ci ha lasciato un retrogusto amaro, quello cioè delle costruzioni fatte a tavolino e quindi poco reali. L’intenzione era quella di far emergere il padre, il marito e il responsabile di uno studio importante. Ma non bastano i nipotini che corrono urlando nell’ufficio del nonno e neppure le nuore che guardano con la moglie di Botta le foto di famiglia, a dare al personaggio una dimensione più intima. E non aiuta la musica piuttosto pomposa e celebrativa (inserita anche nei primi minuti del documentario), a umanizzare e a far scendere Mario Botta al nostro livello, poveri mortali. Anzi, restando in tema, questa parte che sarebbe dovuta essere più intima, si è trasformata nel suo opposto, e cioè come su un razzo ha portato (o riportato) Botta tra le stelle dell’architettura mondiale, relegando perciò sullo sfondo la sua ricerca più importante: quella del sacro.

Nicola Mazzi

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