Un doppio intenso recital al Cortile di Viganello

Lettura “La Patente”, a sinistra Roberto Albin, e a destra Emanuele Santoro.

L’uomo dal fiore in bocca, in programma al Cortile di Viganello ieri e oggi, vista la brevità del testo, viene preceduto dalla lettura di una delle più famose novelle pirandelliane, spesso anche antologizzata per le scuole, La patente. Con il suo corrosivo, paradossale e icastico sarcasmo, che ha come bersaglio l’ottusa e superstiziosa ignoranza della società, attraverso un meccanismo di logica disincantata, il Nobel siciliano ci racconta e descrive minutamente (all’inizio) i tormenti di un giudice istruttore che si trova a dover condurre un processo contro diffamazione e calunnia, in cui la vittima risulterà inequivocabilmente sconfitta. Lui lo sa, lo prevede e, colpito nella sua sensibilità, parte già rassegnato, ma ci penserà il protagonista a scompaginare le carte. La storia è nota, pensando anche ad un irresistibile Totò. Accusato di essere uno iettatore, perseguitato da scongiuri di ogni tipo, messo ai margini del vivere sociale, perso lavoro e dignità, egli decide di trasformare la sua condanna in un mestiere: vuole andare a processo proprio per perdere e vedersi confermato il suo statuto, per ottenere un diploma che lo attesti e d’ora in poi si farà pagare da tutti per starsene alla larga… Da uffici, luoghi pubblici, di ritrovo ecc…  Si barda da iettatore e così si presenta davanti ad un allibito giudice. Il testo è datato 1917, oggi la calunnia corre in fretta e dilaga sulla rete del web e ancora sappiamo quanto incida la stupidità umana, ma l’insegnamento pirandelliano, che nella sua apparente assurdità non fa una piega, apre spiragli di speranza a tutti. Il recital di Emanuele Santoro accompagnato dalle delicate sottolineature musicali di Roberto Albin, al violino e alla chitarra, è come sempre articolato nelle sue sfumature e declinazioni a due voci, pause ed effetti comici compresi.

Lettura “L’uomo dal fiore in bocca”, a sinistra Roberto Albin, e a destra Emanuele Santoro.

Segue immediatamente il pezzo forte, un capolavoro breve quanto intenso, tale da aver prodotto una fiumana di analisi, cavallo di battaglia per molti grandi interpreti del teatro italiano, L’uomo dal fiore in bocca, tratto da una novella che aveva un titolo meno poetico e più esplicito, La morte addosso. Scritto negli anni Venti, non perde mai di smalto trattando il tema dei temi, la finitezza umana, in un dialogo che rimanda in qualche modo ai ragionamenti delle leopardiane Operette morali. Rappresentanti emblematici della società i due personaggi sconosciuti, un Avventore, l’essere comune, alle prese con le misere faccende quotidiane e famigliari, e lui, “l’uomo dal fiore in bocca” che si trova proiettato in una dimensione esistenziale altra. Pirandello ci conduce nei labirinti mentali di chi sa di dover morire per una malattia. È allora che, solo in quel momento, si capisce quanto spreco ci sia nel condurre un’esistenza pervasa da una fretta superficiale, nello scorrere insensato delle giornate. L’uomo dal fiore ha invece sviluppato un attaccamento alla vita che passa attraverso l’attenzione ai minimi dettagli, che siano le abilità delle commesse nel fare i pacchetti da consegnare ai clienti, o le considerazioni sulle sale d’attesa di un medico… Nessuno ci fa caso, normalmente. L’umanità sa di dover morire, prima o poi, ma non ci pensa, altrimenti la vita diventerebbe un inferno, ma è solo con la “morte addosso”, ci dice Pirandello, si può coglierne il senso insensato, attraverso l’immaginazione si può cercare di possederla nel suo farsi e non soltanto come passato. Ma in questa cinica disperazione, non è tanto per rendersi conto di ciò che sta perdendo, ma proprio per constatare, con rabbia, senza nessuno piacere, il fallimento del vivere, cercando di consolarsi così, ancora con un paradosso, del dover morire: «Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto, ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gusto della vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché la vita, nell’atto stesso che la viviamo, è cosi sempre ingorda di se stessa, che non si lascia assaporare. Il sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. Il gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a che cosa? A questa sciocchezza qua… a queste noje… a tante stupide illusioni… insulse occupazioni… Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza… questa che ora qua è una noja… ».

Pirandello come tutti i grandi non dà conforto, ma richiama alla consapevolezza, sarà difficile con la coscienza, ma senza è ancora più inutile. Questa volta Albin è passato alle note malinconiche dell’armonica a bocca (l’autore nelle sue minuziose note suggeriva un lontano suono di mandolino…), alternandosi con precisione nella figura dell’Avventore, per poi lasciare gran parte dello spazio alla lettura monologante di Emanuele Santoro. Un recital di spessore, sempre sospeso tra testo e sottotesto, tra detto e non detto. Il pubblico apprezza. Si replica oggi pomeriggio alle 17.

Questo è il secondo momento di una trilogia pirandelliana, dopo La Giara di novembre, l’appuntamento è ora per marzo (dal 25 al 29) con Uno, nessuno e centomila, questa volta un vero e proprio adattamento teatrale, come nuova produzione e.s. teatro. Ricordiamo anche che Medea Recital è stato posticipato a maggio, al suo posto il 16 febbraio (ore 17), visto il successo, sarà replicato Benvenuto in psichiatria. Storie di straordinaria follia.

Manuela Camponovo

 

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