Un lungo viaggio nella solitudine

Un dramma della solitudine ma anche sulla famiglia colta in quella crisi della modernità che ha percorso l’immaginario creativo (teatrale e non solo) del Novecento, è l’opera della drammaturga e regista Lucia Calamaro, rappresentata martedì e ieri al LAC. Il tema, nella sua forma simbolica, si manifesta con un “ritorno” che focalizza sul “qui” e “ora”; l’occasione può essere un evento che richiama al nido originario i parenti, funerale, compleanno, commemorazione… (in questo caso la coincidenza di tutte e due che porta i tre figli e il fratello maggiore a visitare il protagonista, per festeggiarne l’anniversario e per la cerimonia in ricordo della madre, della moglie morta). Il convergere, nel diradamento delle relazioni attraverso gli anni, spinge all’esplosione del malessere, del detto e non detto, rancori, rimorsi, rabbie, invidie, in una resa dei conti che dovrebbe essere chiarificatrice. Riemergono allora ricordi e fantasmi del passato (nel caso della Calamaro, come vedremo, da prendere alla lettera).

Il tutto sviluppato in un fitto groviglio di parole, dialoghi intervallati da monologhi, con punte di comicità anche improvvisativa in stile un po’ troppo cabarettistico. Si ride per la raffica di battute, ma anche per l’autoreferenzialità accattivante, il citare Lugano o la “distanza ticinese”, il rivolgersi direttamente alla platea, con ammiccamenti da captatio benevolentiae, funzionano sempre. Tra l’altro i nomi degli attori sono identici a quelli dei personaggi per un’ulteriore sovrapposizione.

In Si nota all’imbrunire – Solitudine da paese spopolato, Silvio (Orlando) vive isolato, rinchiuso in casa, vittima di una pigrizia oblomoviana che lo spinge a muoversi il meno possibile, a preferire sopra ogni altra la posizione da seduto. Cita autori, libri (ma l’intera famiglia è colta o pseudo colta, in gioco ci sono parodiati tic, schematismi, luoghi comuni di un certo intellettualismo di maniera, un po’ alla Moretti, per dire). E disserta sul senso della solitudine, scelta e subita insieme, che è sofferenza ma anche il bisogno di ritrarsi per paura degli altri, del giudizio, del confronto, la solitudine è rassicurante, non si soffre afferma, ma sa che “non basta a fare una vita”. Sente la mancanza ma “essere socievole è terribilmente faticoso”. “Il paese spopolato” del titolo è quello interiore, privo di abitanti, tagliato fuori dal mondo.

Tutti filosofeggiano nei loro battibecchi, equivoci, e reciproci rimproveri, con un’esaltazione pedantesca che spinta all’estremo trasforma ogni personaggio in una caricatura esistenziale, tra sottolineature tecniche, linguistiche, filologiche, in cui si sfaldano i connotati realistici, nessuno dei parenti è mai riuscito a soddisfare le sue ambizioni, restano in un limbo indefinito, professionalmente o artisticamente, in pratica non si capisce chi sono, cosa fanno. Alla fine se ne chiarirà il perché, dato che non esistono come realtà autonome, essendo proiezioni mentali di Silvio che non li conosce più, che non ha rapporti con loro da anni. Per lo stesso motivo, a volte sembrano non ascoltarlo, gli rubano le frasi, i concetti, ripetono quello che lui aveva appena finito di dire, come se non fosse stato lui a dirlo per primo. Silvio protesta… Calamaro semina indizi per preparare il “colpo di scena” conclusivo che con un ossimoro potremo definire una sorpresa prevedibile. Contribuisce anche la scenografia stilizzata fatta di trasparenze e aperture, non “vera”.

I personaggi, nei loro fallimenti, sogni traditi, ossessioni compulsive, rappresentano un’antologia esemplare di patologie e nevrosi della contemporaneità; in quell’intrico di rapporti familiari, in particolare emergono le relazioni perverse genitori e figli: “nessuno può fare il genitore di figli grandi”, questi si ribellano e giudicano. Calamaro diventa un po’ troppo ridondante e prolissa nel seminare la rappresentazione di massime e aforismi stile Oscar Wilde. A beneficio di un effetto comico che però non giova ad alimentare la profondità della riflessione; il riscatto arriva nell’ultimo monologo, quando si rivela che nessuno è venuto a trovare Silvio, lui è sempre stato solo, prigioniero di un sogno, un incubo, un’allucinazione e si ritrova a sfogarsi davanti alla tomba della moglie, l’unico momento di autentica commozione anche se un po’ troppo studiato a tavolino. Chi conosce la Calamaro sa che questo non è il suo migliore lavoro, c’è molto di scontato e alcuni tagli lo migliorerebbero.

Sala del LAC con vistosi vuoti nella replica di ieri ma applausi convinti per Silvio Orlando, di cui non c’è bisogno di sottolineare la bravura, in quella naturalezza attoriale che però lo porta ad essere sempre uguale a se stesso; accanto: Riccardo Goretti, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini.

Manuela Camponovo

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