Un piccolo passo per un uomo, un grande passo per Paolo Nespoli

«For here am I sitting in a tin can. Far above the world. Planet Earth is blue. And there’s nothing I can do» così cantava David Bowie nel 1969, quando, con le melodie di Space Oddity, siglava un classico intramontabile nella Storia della musica del secondo Novecento. Paolo Nespoli quel piccolo shuttle di metallo lo conosce molto bene: nel suo caso, si chiama ISS (acronimo di International Space Station) e il pianeta blu lo guarda e lo fotografa dall’alto. Sì, perché oltre che un ingegnere, un militare e un sognatore, Nespoli – che ha riscosso un successo “bulgaro” ieri sera all’Auditorio dell’Università della Svizzera Italiana, per cui molti stavano appollaiati sugli scalini – è un fotografo curioso. Sulla stazione spaziale ha scattato mezzo milione di foto: da un’alba che ci mette sette secondi a issarsi, ai cinque continenti che si alternano agli occhi dell’astronauta sulla coffa trasparente dell’ISS, fino al tramonto.

«Oramai sono in pensione», dice Nespoli scherzando, ma a vederlo non si direbbe: saranno forse gli allenamenti che le associazioni spaziali fanno fare a lui e ai suoi colleghi – esploratori oltre l’atmosfera, punti invisibili tra noi e le stelle – per tenerli in forma in vista del prossimo lancio? Nonostante la fulminante carriera nel mondo ingegneristico, Nespoli il pianeta Terra l’ha lasciato a cinquant’anni: «era il 2007 quando ho fatto la mia prima missione.» La prima di tre lunghe missioni nel bellissimo blu; staccato dalla terra e dalla famiglia che ama e che vive a Houston (e dove potrà mai vivere un astronauta se non nel suolo del «Houston, abbiamo un problema»?) Il tempo passato da Nespoli fuori dal nostro pianeta è stato di circa trecento giorni: un annetto che ha richiesto altrettanti anni di preparazione. Fisica, ma non solo.

«Quando andavo alle elementari, negli anni Sessanta dicevo che volevo fare l’astronauta.» «Sì, ragazzo, studia e ce la farai!» (Dev’essere stato questo il beffardo commento di qualche professore provinciale che non credeva nel sogno di Nespoli). E in effetti, «quante erano le probabilità che un ragazzo come me riuscisse ad andare nello Spazio?» Il sogno di andare sulla Luna e viaggiare tra pianeti «è rimasto nel cassetto per molto tempo. Fatto il servizio militare a diciannove anni, otto anni dopo ho deciso di perseguire quel sogno.» In missione a Beirut in Libano Nespoli ha conosciuto la scrittrice Oriana Fallaci, autrice guarda caso di Quel giorno sulla Luna e con la quale il giovane ha avuto una relazione lunga cinque anni («intrigante, stimolante, vulcanica, impossibile da gestire […]» come ha l’astronauta stesso a detto a Elvira Serra sul Corriere della Sera). All’inizio degli anni Novanta, Nespoli ottiene Bachelor e Master of Science a New York fino ad indossare la mitica tuta bianca da quindici milioni di dollari (sì, è questo il prezzo dello scafandro di un palombaro delle stelle). «Ho dovuto imparare l’inglese – visto che a scuola avevo studiato il francese – e anche il russo» (le due lingue delle superpotenze che per poco meno di un terzo si sono sfidati per il controllo non solo del mondo, ma anche dell’universo circostante). «Ci è voluto molto tempo, ma alla fine ce l’ho fatta.»

Nespoli parla delle sue missioni: «Quando andiamo nello spazio non andiamo sulla Luna, ma sulla Stazione Spaziale Internazionale, una casa-laboratorio che orbita a quattrocento chilometri di distanza dalla Terra e dove ci sono delle condizioni di microgravità, cioè non si sente la forza di gravità.» Inizia quindi il viaggio dell’astronauta Nespoli, spedito come un pacco postale a fare diversi esperimenti nello Spazio. «Lassù si possono fare cose che sulla Terra non potremmo fare.» A bordo della graziosa navicella – anche qui, immaginiamo i costi di tutta l’attrezzatura – «si sta come in una macchina che ci tiene in vita: una sorta di rene artificiale. Quando è esposti al Sole, fuori si arriva fino a duecento gradi, per poi passare a meno centocinquanta quando si è all’ombra.»

Ma come si arriva dunque alla stazione? Nespoli illustra al pubblico «un processo di tre fasi. Primo: il lancio e quindi l’aggancio alla stazione – dalle sei alle trentadue ore – poi il lavoro effettivo sulla stazione – circa tre mesi – e poi l’atterraggio sulla Terra, anche qui, di quattro-cinque ore.» Inutile dire che – ma questo vale anche per chi deve banalmente prendere un aereo e fare uno scalo – «la parte più difficile è proprio la partenza e il ritorno», che «causano diversi problemi» («Commencing countdown, engines on. Check ignition and may God’s love be with you», per seguire le parole del Duca Bianco). «Quando si arriva su si è come in una grande famiglia. Siamo in sei in tutto: i terrestri che arrivano» – ovvero quelli freschi di pianeta Terra e poco avvezzi al fluttuare spaziale – «devono abituarsi alla microgravità», cosa non semplice, dal momento che «è come se provaste a mettervi per un’ora a gambe all’aria e testa in giù sul divano.» Il cervello impazzirebbe, ma sull’ISS non c’è tempo per impazzire, ma solo quello per lavorare, visto l’imperativo time schedule imposto dagli operatori terrestri che seguono i fantastici sei dal pianeta blu. Importante, sempre a livello fisico, è evitare «lo scioglimento delle ossa». No, non stiamo parlando di una tortura medievale o di qualche truculenta punizione alla Al Capone, ma del fatto che «nello Spazio perdiamo più del dieci per cento di calcio che perdiamo sulla Terra.» Inoltre – ottimo monito per i molti bambini in Auditorio che vogliono fare gli astronauti – «c’è il rischio che il nervo ottico venga schiacciato e il cervello compresso, provocando a volte danni irreparabili.»

La giornata tipo del “Paolo Nespoli stellare” a bordo dell’ISS inizia alle sei del mattino, quando scocca la sveglia. Un’ora e mezza dopo – fino al completo giro delle lancette per tutto il quadrante dell’orologio – inizia il servizio, «per un totale di otto ore e mezza di lavoro, due e mezza di esercizio fisico, un’ora di pausa pranzo», con quelle simpatiche barrette liofilizzate che tutti, da bambini, abbiamo comprato al museo della scienza e della tecnica in gita scolastica. «È molto difficile trovare il ritmo del sonno: ho scoperto che ho bisogno di sei ore.» Trovare il giusto ritmo per fare degli incontri importanti dall’ISS: Nespoli e la sua squadra hanno anche dialogato con Papa Francesco («un Papa che ha dialogato con gli extraterrestri!»)

Come anticipato, «la preparazione dura molto tempo: due anni. Veniamo mandati in diversi laboratori in giro per il mondo. Tre settimane in Giappone, altre tre in Russia, poi ancora in Europa e anche in America …» Prima di stazionare per tre mesi sospesi tra la Terra e il “nulla”, se non altro, gli astronauti non possono dire di non aver viaggiato il loro pianeta. Quindi esercitazioni e ancora esercitazioni. Anche quelle di pazienza: «è bene non litigare sulla stazione spaziale», avvisa Nespoli, anche se è vero che già due persone in casa spesso fanno fatica a convivere; figuriamoci sei … In compenso, sulla Terra l’allenamento è un massacro spaziale: gli human behaviour performance trainings sono tosti e lunghi. «Una volta siamo andati in Alaska. Hanno lasciato me e la squadra da soli per due settimane», a solcare laghi, fiumi e mari ghiacciati dello Stato più ad Ovest dell’America: «dovevamo fare centocinquanta chilometri in kayak», il tutto per sviluppare lo spirito dello stare insieme. «Un’altra volta siamo stati per settimane nelle caverne della Sardegna», con cunicoli da trenta chilometri inesplorati, mentre «in Russia abbiamo dovuto costruire una capanna con un paracadute e soccorrere un collega che si era rotto una gamba, improvvisando – con quello che avevamo – anche la barella per soccorrerlo.» E poi «prove con la contaminazione dell’atmosfera», «un incendio nella capsula», «un’intossicazione alla base …» Vita e morte: sulla Terra, come nello Spazio.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

 

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