USA, sono trascorsi 157 anni dal bando alla schiavitù: ma le cicatrici sono ancora presenti
*Per i temi complessi trattati e affrontati qui di seguito, i nomi delle persone intervistate per questo articolo sono stati cambiati e/o omessi per motivi di privacy e per tutelare la loro identità in questo momento delicato all’interno del territorio USA.
Dopo la Guerra di Seccessione (1861-1865) che vide la vittoria degli Stati dell’Unione a Nord contro quelli del Sud, il Congresso abolisce lo schiavismo su tutto il territorio USA con l’approvazione del 13° emendamento della Costituzione. Sono passati più di 157 anni dal bando della schiavitù, eppure le cicatrici del passato sono ancora presenti: le vicende delle ultime settimane avvenute oltreoceano ne sono la dimostrazione; dalla morte di George Floyd alle manifestazioni a favore del movimento “Black lives matter”, fino alle rivolte violente di diversi cittadini. Insomma, la schiavitù non c’è più, ma il razzismo è ancora molto percepito.
Non è un segreto che gli Stati Uniti sia uno dei Paesi dove discriminazioni e pregiudizi sono tra i problemi in cui si imbattono quotidianamente i cittadini, i media e il sistema politico americano. La situazione più drammatica la vive il Sud dove, quell’idea psicologica di presunta superiorità di razza è ancora radicata nel pensiero di molti. Ma anche gli Stati a Nord non sono esclusi da situazioni spiacevoli basati sul colore della pelle.
La comunità afroamericana si sente ancora oggi marginalizzata in molte aree, che non comprendono solo quello lavorativo ma anche quello artistico culturale: «Nei film mettono sempre un afroamericano, tra i molti protagonisti bianchi. Quasi come a darci un contentino. Della serie: “Ecco, non siamo razzisti nel cast c’è un nero”», confessa Jamall S., un cittadino afroamericano di New York. Altri invece lamentano il non essere visti come persone «Quando entro in un negozio vengo giudicato dal colore della mia pelle. Li vedi gli sguardi, pensano: “probabilmente è un criminale”, e ti osservano mentre giri per il negozio perché hanno paura che rubi qualcosa, perché? Perché sono nero»; o ancora «quando mi ferma la polizia, mi ritrovo quasi a dovermi giustificare perché guido una bella macchina. Come se per un nero avere una bella macchina significa dover per forza svolgere qualche attività illegale».
E i non afroamericani cosa dicono? Se da un lato c’è chi prende parte al movimento “Black lives matter”, dall’altro c’è chi sostiene che gli afroamericani «sfruttano la storia dello schiavismo» a loro convenienza: «Dicono che vogliono un paese unito e senza distinzioni per il colore della pelle; poi però appena conviene tirano fuori la storia dello schiavismo. Come facciamo a superare queste cose se loro restano attaccati al passato e ci incolpano continuamente?», è il pensiero di Betty L., una signora anziana che ha vissuto tutta la sua vita in Alabama.
A sorprendere sono molti giovani universitari americani con una solida preparazione di storia alle spalle e che, indipendentemente dal colore della loro pelle, hanno quasi tutti rivelato lo stesso pensiero: ovvero, «We don’t see color, we don’t see religion; we see character. We judge based on that»; che tradotto significa “non vediamo colore, non vediamo religione; vediamo il carattere, valutiamo una persona in base a quello”.
La verità è che molto del risentimento che esiste tra “bianchi” e “neri” negli Stati Uniti è dovuto a un sistema politico-sociale che negli anni non è stato in grado innescare un meccanismo di evoluzione e unione tra gli stessi cittadini; anzi, il partito repubblicano così tanto quanto quello democratico hanno utilizzato il tema del razzismo e della discriminazione a favore dei propri giochi politici, in particolare modo quelli elettorali. Un sospiro di sollievo lo regalano i giovani che decidono abbandonare l’area del sentito dire e dell’ignoranza per abbracciare la consapevolezza storica, culturale e sociale del mondo e arricchire il loro bagaglio conoscitivo, personale e relazionale. Forse in loro una scintilla di speranza per un migliore avvenire. Forse.
M.Elisa Altese